venerdì 29 maggio 2015

Un oste nella Palermo “colta” del XVIII secolo

di Francesco  Paolo  Pasanisi

Tra le “putie” degli artigiani del quartiere La Loggia sorgeva la trattoria “Di li Casciara” del lombardo Giovan Maria Bassanelli, ricordata anche nel poema della “Fata Galanti” del Meli
Tra le vie del quartiere della Loggia, quella dei Cassari è una delle più caratteristiche, essa trae il nome dagli artigiani che l’abitavano e che fabbricavano casse, scale e remi: quest’ultimi per i pescatori del vicino porto della città ed anche del porto “Pidocchio”. Per porto Pidocchio s’intendeva quel tratto di costa che si estendeva nella zona del “Borgo” attorno alla chiesa di S. Lucia. Quartier questo abitato prevalentemente, nel secolo XVIII, da Lombardi, nelle mani dei quali si accentrava il commercio del vino, ma non solo, questi conducevano anche le taverne ed il 90% dei forni che producevano dell’ottimo pane.
E Lombardo era l’oste Giovan Maria Bassanelli che dal 1762 al 1787 gestì un’osteria sita nella suddetta via dei Cassari, osteria appartenuta in precedenza al cugino Andrea. Quest’osteria detta “Di li Casciara” è ricordata nel secondo canto del poema berniscu della “Fata Galanti” del Meli. Il poeta dell’Arcadia abitava nei pressi dove oggi sorge la chiesa della Madonna del Lume (1788), quindi a due passi dalla stessa trattoria.

SECUNNU

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Finuta sta vanedda si vidia
Cu l’addauru a la porta ‘na taverna
Chi Bravascu! ammucciari si vulia
Chidda di li Casciara chiù muderna; 
Un pignatuni di trippa cucia,
Tuttu sbrazzatu lu Su fattu a Perna;
Lu Garzuni gridava comu un mattu,
Li maccarruni a du’ rana lu prattu.

La taverna costituiva un centro di cultura e di ristoro, in un periodo tra i più floridi per la città di Palermo. Merito del Bassanelli, che da uomo accorto, nobile di spirito, dal cuore grande, spinto dall’amore del dovere, ottimo cristiano, caritatevole e misericordioso seppe gestire con prudenza e avvedutezza l’osteria grazie alla sua rettitudine ed onestà.
Le osterie dal ‘600 in poi si presentavano come dei luoghi pittoreschi e dai facili piaceri, dove si incontravano persone di ogni ceto e condizione. Queste erano più controllate di prima dalle autorità di polizia.
La taverna de’ Casciari era accessibile a tutti perché con poca spesa si rimaneva soddisfatti. Mercanti forestieri, artigiani, cittadini, plebei, donne, dame, erano i principali clienti del bravo Bassanelli, che serviva con accorte e graziose maniere delle saporite vivande, grazie anche ai suoi garzoni, che eseguivano gli ordini, precisi e repentini, per non far attendere i clienti.
Tipico oste dal portamento accigliato, amava pavoneggiarsi sopra il volgo e le persone colte ma sempre con modestia. Arguto, dalle gote lisce e l’atteggiamento tipico del misogino, interveniva in ogni discussione con prontezza e preparazione. Era un letterato aperto, dalla mente lucida, dalla fantasia viva e dall’ingegno fervido. Impersonava il tipico savant dell’epoca, sostenuto nei discorsi dalla filosofia e dalla religione. Amante del prossimo non a parole ma nei fatti. Ospitava i baroni spiantati e i bambini poveri e spesse volte non si faceva pagare, per non umiliare il debitore. La “Taverna de’ li Casciara” rappresentava una fucina di cultura tipica dell’epoca dei “Caffè”.
Le scansie dell’osteria erano sempre stracolme di tutto ciò che si poteva servire ai tavoli: dai pesci di ogni tipo, alla caccia prelibata, ai piatti più semplici e più graditi dagli innumerevoli clienti che frequentavano la sua taverna e che spesse volte volevano allontanarsi dai piatti ricercati della cucina francese (Palermo era piena di cuochi d’oltralpe che lavoravano presso le famiglie nobili dell’epoca).
Il cibo poteva mancare dalla mensa dei ricchi ma non nella cucina dell’oste, sempre in attività fra i carboni accesi , i fumi delle fritture e gli odori delle ottime pietanze. Quindi a completare e rendere più affascinante l’ambiente, si potevano ammirare e consultare i testi classici degli antichi autori latini, greci o delle storie del Robertston e del Muratori.
I volumi erano posti negli scaffali, non in perfetto ordine, a testimoniare la continua lettura. Il tutto creava un’atmosfera particolare e confortante ed un ambiente confortevole e non di evasione ma di riflessione, maturazione e crescita interiore che metteva l’uomo a contatto con il suo simile in un mondo reale, concreto e vero. Il Bassanelli era l’artefice, il coordinatore ed il promotore di questo luogo non arcadico ma naturale, razionale e rasserenatore per chi lo frequentava.
L’Osteria de’ Casciari non era né “L’Osteria del Predone” dei “Misteri di Parigi” di E. Sue, né la più famosa “Rotisserie de ­la Reine Pédoque” di A. France. Quella del nostro oste rappresentava una concreta realtà dove tutto era possibile.

Presentazione del libro: "Teologia della liberazione: per i poveri o per la povertà?"


Caro Papa, non può insegnarci la morale chi ha provocato la crisi ambientale

di Ettore Gotti Tedeschi

Beatissimo Santo Padre,
mi permetta di rivolgermi direttamente a Lei dopo aver seguito il dibattito e tante dichiarazioni - anche di uomini di Chiesa - riguardo alle tematiche ambientali e dello sviluppo.
Credo sia importante fugare ogni ambiguità e dire con chiarezza che la vera responsabilità degli squilibri socioeconomici che hanno prodotto povertà diffusa e la conclamata crisi ambientale, si trova nelle tesi dei cosiddetti neomalthusiani e affini, che oggi sembrano venir proposti per contribuire persino a dare indirizzi morali per affrontare il problema ambientale ed economico. Poiché sappiamo bene che se una diagnosi è sbagliata o falsata, la prognosi sarà altrettanto sbagliata.
La crisi economica in corso e gli squilibri ambientali verificatisi negli ultimi decenni, sono stati originati dalla applicazione delle teorie neomalthusiane (divulgate all’inizio in più università americane negli anni 1970-80) che hanno ispirato e “forzato” il crollo delle nascite nel mondo occidentale.
Ma come può crescere realmente e sostenibilmente il Pil (Prodotto interno lordo), se la popolazione non cresce? In realtà (illusioni a parte) può accadere solo facendo crescere i consumi individuali. Perciò per correggere e compensare i rischi del conseguente crollo della crescita del Pil, fu adottato il cosiddetto “modello consumistico”. In una società matura e con morale relativizzata (nichilista) non è stato difficile proporre all’uomo occidentale, quale vera e principale soddisfazione, quella materiale–consumistica. Ma per soddisfare l’esigenza di consumismo diffuso, si sono anche creati i presupposti di povertà e di sfruttamento dell’ambiente. Ciò è avvenuto deindustrializzando i paesi occidentali, troppo costosi produttivamente, e delocalizzando: trasferendo cioè produzioni in paesi a basso costo di mano d’opera, ancora impreparati alla tecnologia protettiva dell’ambiente.
Per far consumare di più si è anche stimolata la trasformazione del risparmio in consumo, sottraendo al sistema bancario una base monetaria per il credito e soprattutto privando le famiglie di autoprotezione. La crescita zero della popolazione, auspicata dai neomalthusiani (due figli a coppia) ha poi determinato il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione, con conseguente crescita dei costi fissi (sanità e pensioni) compensati da equivalente crescita delle tasse, che han prodotto riduzione dei redditi, degli investimenti e crescita del debito.
Per evitare il collasso conseguente nella crescita economica si è forzata sempre di più la crescita dei consumi, e sempre più a debito. Ma si è forzata anche la crescita della produzione delocalizzata, meno attenta allo sfruttamento dell’ambiente. L’origine della crisi economica, della povertà incombente e degli squilibri ambientali, sono conseguenza di questa dottrina neomalthusiana.
Come potrebbe essere ora questa stessa dottrina a risolvere i problemi che ha creato? Il rischio è che questa si preoccupi invece di far mancare il sostegno alla vera crescita economica: quello alla famiglia e alla crescita equilibrata e consapevole del numero di figli. Così mancheranno ancor più le risorse per riequilibrare le strategie produttive globali e investire in tecnologia pro-ambiente. Mancheranno sempre più le risorse per mantenere i vecchi, creare lavoro per i giovani e proteggere i più deboli. 
Ma come si può pensare che una cultura neomalthusiana e abortista che nega la sacralità della vita umana e considera l’uomo animale intelligente, frutto dell’evoluzione di un bacillo, ma cancro della natura e orientato solo a consumare, possa elaborare progetti per l’ambiente e per l’uomo? Come si può pensare di riferirsi a soluzioni per l’ambiente proposte da chi vede una pseudo soluzione ambientale-economica prioritaria verso la vera soluzione di consapevolizzazione morale dell’uomo attraverso una maturazione spirituale ed intellettuale? 
Ciò che in più stiamo rischiando, tollerando soluzioni malthusiano-ambientaliste, è permettere all’ambientalismo di affermarsi quale religione universale nel mondo globale dove coesistono diverse culture religiose. Questo ambientalismo malthusiano rischierà di creare maggiore povertà, maggiori squilibri socioeconomici e minor tutela vera dell’ambiente.
San Francesco amava le creature e l’ambiente, quali opere del suo amato Creatore, secondo il fine da Lui previsto. 
Perciò confido in Lei, Beatissimo Padre, con filiale devozione.
da: www.lanuovabq.it



Ricordo della Regina Maria Sofia delle Due Sicilie

Maria Sofia Amalia era nata il 4 ottobre del 1841 nel Castello di Passenhofen in Baviera dai Duchi Massimiliano von Wittelsbach e Ludovica, figlia del re di Baviera, Luigi I. 
Le cinque figlie del duca Max, le chiamavano da giovani die Wittelsbacher Schwestern, le sorelle Wittelsbach, portavamo tutte e cinque le treccie nere, ricondotte a giro appena al di sopra delle orecchie e sulla fronte, al modo delle contadine dello Oberbayern. Maria Sofia era la terza e somigliava molto alla sorella Elisabetta, la famosa Sissi, Imperatrice d’Austria. Era "alta, slanciata, dotata di bellissimi occhi di color azzurro-cupo e di una magnifica capigliatura castana; Maria Sofia aveva un portamento nobile ed insieme maniere molto graziose".
Aveva appena diciott’anni quando giunse a Bari il 1 febbraio 1859 per conoscere il giovane Duca di Calabria, Francesco, suo marito, erede di un Regno, il più esteso, ricco, il più bello di tutta la penisola italica.
“V’ ‘o ggiuro nnanz’ ‘e sante! Nn’ èramo nnammurate tuttuquante!” così Ferdinando Russo fa dire al suo “surdato ‘e Gaeta” ed effettivamente Maria Sofia, col suo fascino e la giovanile bellezza si attirò subito le simpatie di quanti la conobbero. Primo fra tutti fu il Re a rimanere favorevolmente impressionato dalla figura della nuora, poi i giovani cognati, la popolazione accorsa festante ad accoglierla, i soldati che, durante l’assedio di Gaeta, da lei ricevevano nuova energia per resistere ai colpi del nemico, e poi Gabriele D’Annunzio, Marcel Proust, Leonardo Sciascia (che ne conservava una immagine nel suo studio) fino a quel Giovanni Ansaldo, allora giornalista del Corriere della Sera, che la intervistò ormai anziana, pochi mesi prima della morte.
Durante la guerra la regina visitò molti soldati nei campi di prigionieri cercando i "suoi" Napoletani. La regina parla correntemente italiano, appena qualche termine francese, ma di rado: e quelli se ne meravigliavano. E lei spiegava così: "Sono una signora, che conosce bene Napoli". Oppure: "Sono una signora, che imparò da giovane a parlare italiano".

un bellissimo ritratto della Regina, oggi al Museo Campano di Capua

La vita non fu tenera con Maria Sofia: la morte del suocero poco tempo dopo il suo arrivo nel Regno, la guerra, l’assedio, l’esilio, l’infame oltraggio da parte dei servizi segreti italiani, la morte della figlia, tanto desiderata, ad appena tre mesi dalla nascita, il nipote Rodolfo, primogenito della sorella, suicida a Mayerling con la sua compagna Maria
Lei seppe resistere a tutto questo e fino alla fine lottò per cambiare le cose, la sorella Elisabetta muore, accoltellata ed infine a questa illustre famiglia che aveva governato mezza Europa per cinquecento anni, tocca l'attentato di Sarajevo in cui muoiono l'arciduca Francesco Ferdinando, nipote di Francesco Giuseppe, cognato di Maria Sofia, e la moglie.
Morì ad 84 anni nella sua Monaco il 19 gennaio del 1925.
Il brano che segue risponde alla domanda di quale giudizio si facevano le donne contemporanee su Maria Sofia. “Da ogni parte d'Europa le giungevano testimonianze della stima e dell'ammirazione suscitata con la sua coraggiosa condotta, specialmente da parte di numerose donne che vedevano in lei l'esaltazione di un modello femminile che rompeva con gli schemi tradizionali”. Maria Sofia aveva ricevuto a testimonianza e pegno di questa simpatia numerosi doni sottoscritti non solo dalle nobili dame dell'aristocrazia europea. Se non manca la statuina d'argento raffigurante Giovanna d'Arco inviatale dalle dame della Franca Contea, la richiesta delle nobildonne austriache all'imperatore perchè concedesse alla regina l'Ordine Militare di Maria Teresa, rigorosamente riservato ai combattenti distintisi per valore e tanti altri doni e onorificenze, non stupisce che anche un gruppo di operaie parigine le avessero inviato un messaggio di solidarietà sottoscritto in milleottocento.
Nell’anno in cui ricorrono i novant’anni dalla sua dipartita, l’Istituto di Ricerca Storica delle Due Sicilie insieme con la Delegazione della Campania del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio e con la collaborazione dell’Istituto di Cultura Meridionale, vuole ricordarne la figura con un convegno dal titolo: MARIA SOFIA DONNA, REGINA, GUERRIERA che si svolgerà il giorno 5 giugno p.v. alle ore 18,30, in Napoli, via Chiatamone 63, palazzo Arlotta.

Da: istitutoduesicilie.blogspot.it

Brigantaggio Postunitario


martedì 26 maggio 2015

Irène Némirowsky: La Russia cristiana nella morsa dei totalitarismi

di Piero Vassallo

La scrittrice russa Irène Némirowsky (Kiev 1903 - Auschwitz 1941),  apparteneva a una famiglia di ricchi banchieri ebrei, che si erano rifugiati in Francia perché refrattari e ostili alle suggestioni dell'ideologia leninista. Prima di essere battezzata (2 febbraio 1939) Irène fu risoluta critica dell'ebraismo bancario e/o sovietico, e testimone di una fede cristiana ardente.
 Irène, dopo essersi laureata alla Sorbona, cominciò a scrivere rivelando una singolare attitudine alla narrazione. Nel 1931 la casa editrice parigina Grasset & Frasquelle pubblicò i suoi primi scritti, che furono apprezzati da Robert Brasillach, Pierre Drieu La Rochelle e Paul Morand. Nello stesso anno iniziò la collaborazione con il giornale di destra Candide. Il suo romanzo David Golder, è un veemente, splendido atto d'accusa contro il sordido culto del denaro. Un libro che non dovrebbe mancare nella biblioteca di una destra rientrata in sé stessa, dopo l'incauto viaggio nel capitalismo.
 I nazisti non capirono e non rispettarono la grandezza della scrittrice in rivolta contro la mitologia comunista. Nel 1941 Irène, morì di tifo ad Auschwitz, dove era stata deportata da fanatici  posseduti e accecati dal criminogeno delirio razzista.
 Dimenticata dal potere culturale esercitato ferocemente dalla lobbyprogressista, ostile alla fede cristiana e incapace di contemplare l'anima russa senza il filtro sovietico e antifascista, la narrativa della Némirowsky è stata riscoperta e pubblicata dopo il tramonto della mitologia marxista-leninista.     
 L'opera di Némirowsky è una magnifica testimonianza indirizzata ai fedeli risparmiati dai morsi velenosi della porno-banca, il potere che infuria a est e ad ovest del conformismo squillante e trionfante nella fedeltà al secolo sterminato.  
 La protagonista del suo avvincente romanzo breve, "Come le mosche d'autunno", è la serva Tatjana Ivanovna, vissuta nella luce di una fede che contemplava l'Onnipotenza del Signore - Tutto è nelle mani di Dio ripete ogni volta che si presenta una situazione difficile - una perfetta figura dell'anima russa, una credente simile a Matrjona, la protagonista del più commovente racconto scritto da Alexandr Solgenitsin. Serva fedele degli aristocratici padroni, i Karin, persone vulnerabili, trascinate dal vento impietoso della grande guerra e oppresse dalla rivoluzione sovietica, Tatjana è estranea e separata dalla storia che sciorina vane illusioni, inutili violenze e umilianti viltà. La sua fede nel Signore Gesù passa attraverso la cruna di una pietà eroica verso i suoi padroni, che escono dalla storia russa sconfitti ed esausticome le mosche d'autunno.
 Nei padroni solidi e ricchi prima di essere travolti dal furore rivoluzionario, Tatjana aveva rispettato, obbedito ed amato il suo destino di serva. Quando sui padroni scese l'ombra della sconfitta, la serva fece di loro l'oggetto di una misericordia senza confine. Rimasta in Russia per custodire il tesoro dei padroni emigrati in Francia, Tatjana, vista l'impossibilità del loro rimpatrio, affrontò un viaggio rischioso e faticoso allo scopo di consegnare i diamanti da lei custoditi. 
 Le pagine della scrittrice russa possiedono una bellezza sconvolgente, illuminata da una ammirevole semplicità. Narrano la fede e la lealtà degli umili e svelano le radici cristiane della loro refrattarietà all'odio di classe.
 Una privilegiata immunità, sconsiglia a Tatjana l'appropriazione-rivoluzionaria delle ricchezze appartenute ai vecchi padroni, che l'anziana serva invece raggiunge a Parigi: "La vecchia Tatjana partì per Odessa con i gioielli cuciti nell'orlo della gonna. Per tre mesi camminò di strada in strada, come quando, ai tempi della sua giovinezza, andava in Pellegrinaggio a Kiev, salendo a volte su treni di affamati che cominciavano a scendere verso sud. Arrivò dai Karin una sera di settembre. Mai avrebbero scordato il momento in cui lei aveva bussato alla porta e aveva fatto la sua comparsa, sfinita ma tranquilla, con il fagotto sulla schiena e i diamanti che le sbattevano contro le gambe stanche". 
La lettura dei capolavori di Némirowsky si raccomanda in modo speciale ai cattolici frastornati dalle alte prediche/chiacchiere, che nascondono sotto i fumi della teologia della liberazione dalla misericordia  le splendide risorse religiose della povertà vissuta e accettata cristianamente. E consigliata. infine, agli studiosi che ignorano o negano ostinatamente/colpevolmente l'abissale distanza che corre tra buona destra e nazismo.  
  

Premio Giulia Avetta



La verità di Guareschi


di Piero Vassallo

Prima di affrontare il dibattuto e tormentato problema dell’autenticità delle lettera scritte e firmate Alcide De Gasperi e indirizzate al comando inglese per sollecitare il bombardamento della periferia di Roma, lettere pubblicate nel 1954 da Giovannino Guareschi nel settimanale Candido, è indispensabile rammentare l’infondata fiducia dei belligeranti negli effetti delle incursioni contro le città, quindi disegnare il profilo dottrinale e le opinioni dello statista trentino.
L’inefficacia dei bombardamenti delle città nemiche era stata dimostrata dalla ferma reazione dei civili tedeschi ai bombardamenti inglesi del 1939/1940, e da quella altrettanto risoluta dei civili inglesi agli attacchi tedeschi nel 1940 e al lancio delle V2 nel 1943. Tuttavia la fiducia dei comandi militari e dei loro partigiani nell’effetto deterrente delle incursioni aeree sulle città non fu mai scossa e non diminuì neanche di fronte all’accanita, disperata resistenza opposta dai soldati tedeschi mentre si compiva la devastazione delle loro città, Dresda ad esempio.
L’esame delle fonti delle opinioni di De Gasperi non può trascurare il fatto che lo statista trentino conseguì a Vienna la laurea in filosofia; una qualifica che consente di giudicare le sue scelte politiche ispirate dal pensiero liberale in forte circolazione nell’Austria asburgica.
Tale pensiero alimenterà un rovente e vigoroso antifascismo, una cordiale simpatia per i partiti d’ispirazione laicista e infine un’allegra tolleranza nei confronti dei gapisti, autori di imprese terroristiche. Vero è che Giorgio Amendola, nel corso di una trasmissione televisiva degli anni settanta, rammentò che De Gasperi aveva commentato la notizia dell’avvenuto attentato di via Rasella con una compiaciuta e allegra battuta: “voi comunisti una ne fate e una ne pensate”.
Lo storico Giuseppe Bedeschi dal suo canto ha rammentato che, nel 1947, lo statista trentino, approfittando della incertezza del momento storico, prese congedo dalla dottrina sociale della Chiesa: “Per quanto riguarda tale dottrina, infatti, De Gasperi, come è stato giustamente osservato, non si limitò ad una semplice revisione … fece qualcosa di più definitivo e sotto molti punti di vista stupefacente: la cancellò con un solo tratto di penna. Alla luce della sua esperienza governativa egli bollò a fuoco come radicalmente antistorico il corpo dottrinale che dalle prime esperienze importate d’oltralpe passando per la Rerum novarum e le elaborazioni tonioliane, il cattolicesimo italiano aveva laboriosamente accumulato dalla metà dell’Ottocento in poi” [1].
Non si può pertanto trascurare o sottovalutare la frequentazione degasperiana di Romolo Murri e nascondere il fatto che la politica degasperiana non fu del tutto indenne dalla suggestione modernistica. Un precedente questo che, associato all’incauta comparazione degasperiano (in un discorso del 1947) di Gesù Cristo a Marx, e all’ostinata preferenza accordata ai partiti laici piuttosto che ai movimenti di destra (Msi e Pnm) chiarisce le ragioni del rifiuto opposto da Pio XII alle ripetute domande di udienza presentate dal capo del governo democristiano.
E’ peraltro risaputo che il conflitto tra De Gasperi e la Santa Sede fu causato, oltre che dall’affrettata bocciatura del progetto di costituzione elaborata dal filosofo del diritto Guido Gonella, dai diversi e incompatibili giudizi sul testo definitivo della costituzione italiana, un documento compromissorio e scivoloso, – aborto giuridico, secondo la sferzante ma puntuale definizione di Carlo Costamagna – che (lo rammenta l’autorevole Pietro Giubilo) ha rivelato in seguito una soggiacente / nascosta refrattarietà ai princìpi indeclinabili della morale cattolica.
Infine è da rammentare che, mentre Pio XII agiva in vista di una pace sottoscritta da tutti belligeranti nella seconda guerra mondiale, De Gasperi, insieme con gli esponenti del Cln, condivideva il progetto degli alleati, contemplante la resa incondizionata della Germania.
Si può affermare, senza timore di smentite, che De Gasperi perseguiva il medesimo fine degli alleati, ovvero finalità diverse e contrarie a quella della Santa Sede.
Non sembra dunque infondata la notizia, svelata da Guareschi, della richiesta rivolta ai nemici di bombardare la periferia di Roma.
Giuliani Balestrino, autorevole giurista e storico di collaudata perizia, finalmente dimostra, in un suo pregevole, robusto e convincente saggio, che De Gasperi, in sintonia con gli esponenti del partito d’azione, approvò e sollecitò i bombardieri anglo-americani, nella convinzione (smentita dai fatti) dell’utilità di tali imprese terroristiche [2].
Il 19 gennaio 1944 De Gasperi, coerente con l’opinione errata sull’efficacia deterrente degli attacchi aerei contro obiettivi civili, indirizzò al comando inglese due lettere intese ad ottenere il bombardamento della periferia di Roma: “Questa azione, che a cuore stretto invochiamo, è la sola che potrà infrangere l’ultima resistenza morale del popolo romano, se particolarmente verrà preso, quale obiettivo, l’acquedotto, punto nevralgico, vitale“.
Lo stato d’animo degli antifascisti a cuore stretto non contemplava l’orrore e la ripugnanza ai bombardamenti delle città italiane. In un testo, Concerto a sei voci, pubblicato nell’immediato dopoguerra, Giulio Andreotti scriveva infatti: “E’ vero o meno che proprio uomini del Partito d’Azione furono quelli che chiesero durante il 1943 agli alleati l’intensificazione dei bombardamenti nelle città italiane per affrettare gli sviluppi della situazione?”
Nel 1952 le due imbarazzanti lettere antifasciste scritte da De Gasperi e indirizzate al comando dei bombardieri, furono oggetto di un ricatto sventato da De Gasperi, che tuttavia (inspiegabilmente) non denunciò i ricattatori.
Nel 1953 le lettere di De Gasperi furono offerte a Giovannino Guareschi, il quale, prima di pubblicarle nel settimanale Candido, le fece periziare dal dottor Umberto Focaccia, autorevole perito del tribunale di Milano: esaminati i documenti il calligrafo dichiarò che le lettere erano state scritte da De Gasperi.
De Gasperi il 26 gennaio del 1954 querelò Guareschi. La decisione di adire alle vie legali implicava la squalifica delle sollecitazioni di bombardamenti indirizzate agli anglo-americani dai resistenti. Infatti impressionò sia Giorgio Pini – “il quale osservò che la querela sporta dal politico trentino implicava un cambiamento di valutazione relativamente ai bombardamenti anglo-americani” – sia Guareschi che scrisse “De Gasperi con la sua querela ammette implicitamente che aver chiesto un bombardamento agli anglo-americani è un fatto disonorevole”.
In realtà il fallito tentativo di occultare le pressioni esercitate dagli antifascisti sugli alleati al fine di ottenere il lancio di bombe sugli educandi italiani ha gettato un’ombra sulla gloria dei resistenti.
Sul fronte opposto, un redattore del quotidiano comunista l’Unità il 29 gennaio scrisse al proposito: “Perché De Gasperi non denunciò subito, un anno e mezzo fa, i ricattatori? Perché non lo ha fatto almeno una settimana fa, quando i documenti che furono oggetto del ricatto – anche se falsi – hanno cominciato ad essere pubblicati? Quali sono i motivi, quali le preoccupazioni che hanno indotto i capi clericali ad una condotta tanto equivoca?”
Il pulpito comunista era notoriamente traballante. Tuttavia la domanda – il sospetto – sulle ragioni del contraddittorio comportamento di De Gasperi era legittima. Vero è che il difensore di De Gasperi, l’avvocato Giacomo Delitàla “si oppose a che venissero disposte le perizie chimica e grafica perché non si doveva porre in dubbio la testimonianza giurata” del querelante.
Il motivo della rigida opposizione al ricorso alle perizie “oggi è dimostrato dai documenti resi noti da Nicolas Farrell e da quelli pubblicati da Alberto Santoni, che il politico trentino giurò il falso in Tribunale, come teste”.
Guareschi fu condannato a un anno di carcere interamente scontata. La sentenza fu pronunciata al termine di un processo inquinato dal legittimo dubbio, insinuato da Guareschi nel numero di Candido pubblicato il 25 aprile 1954, di una obbedienza dei giudici all’articolo 16 del trattato di pace imposto dagli alleati all’Italia nel 1947, articolo che contemplava l’impunità degli italiani che, tradendo la Patria, avevano collaborato con il nemico durante la seconda guerra mondiale. La rievocazione di Giuliani Balestrino traccia un pesante segno critico sulle glorificate imprese degli antifascisti di sacristia. Un’ombra che fa coppia con quelle lasciate dai giustizieri comunisti sulle radiose giornate della primavera del 1945. Oscurità che tuttora fanno cadere note stonate sulle fanfare squillanti nelle perpetue celebrazioni compiute da autorità che hanno in tasca il metro di legno.

[1] Cfr.: Le ideologie politiche in Italia dalla Costituente al centrismo, Einaudi, Torino 2003, pag. 27.
[2] Ubaldo Giuliani Balestrino, “Guareschi era innocente Ecco le prove“, i libri del Borghese, Roma 2015.


lunedì 25 maggio 2015

Alcune "Lapidi sull'Oreto" di Vittorio Riera

Pubblichiamo, per gentile concessione di Vittorio Riera, stimato studioso e storico dell’arte, alcune sue “croci”, fra le circa 200 da lui scritte che fanno parte della raccolta inedita Lapidi sull’Oreto. L’unico punto che può richiamare Spoon River, è il riferimento al fiume, poi le due raccolte divergono: sono lapidi, e quindi accolgono aspetti positivi di quanti il Riera ha conosciuto, mentre Masters esalta i pettegolezzi, e le malefatte, anche, delle persone sepolte nel cimitero di Spoon River, inoltre nelle geniali parole di Riera si racchiude il ricordo in quattro righe di sicura pregnanza e liricità. Segue una poesia di Renzo Massone che ne fece dono al Riera, un modo ulteriore per commemorare il comune amico editore e intellettuale palermitano.

Pietro Terminelli, poeta e saggista

Fuori apprezzavano il tuo verso lungo
e aspro e forte qui da noi il silenzio
il silenzio più assoluto e inesplicabile
quando non l’amara derisione.

Roberto Di Marco, scrittore. Compagno di classe

La bontà era il marchio
che ti distingueva Roberto,
tu, che non volevi liti tra compagni
e ci esortavi a essere buoni.

Vito Mercadante, preside e scrittore

Te ne sei andato con la tristezza forse
di non avere visto battuta la mafia
di cui sei stato a cielo aperto
fiero e coerente avversario.

Renzo Mazzone, Editore, scrittore

Quante righe e pagine Renzo,
passarono al vaglio dei tuoi occhi attenti
di te conservo una poesia che la dice lunga
sul tuo non essere soltanto un editore.

NatScammacca, poeta, scrittore

Generoso generosoNat
non trovo altri aggettivi per il tuo
animo bello  la voce chiara
gli occhi puri e limpidi.

Crescenzio Cane, poeta, pittore, scrittore

Fosti l’inventore della parola sicilitudine
tu che eri con i tuoi versi e i tuoi quadri
la personificazione  vivente
di una Sicilia amara e bistrattata.

Rolando Certa, poeta, scrittore, saggista

Nei tuoi versi, paragonasti
con immagine disperata
la Sicilia a una pecora sgozzata
che non ha più la forza di belare.

Gianni Diecidue, poeta, scrittore, saggista

Il tuo verseggiare limpido perfetto
con sempre nella testa gli ultimi
era tutt’uno con l’immensa
umanità che trasmettevi ai tuoi alunni.

Totò Giujusa, saggista, scrittore

M’accoglievi nella tua stanza verde
dove la tecnologia più avanzata
si armonizzava sapientemente
con i classici italiani latini e greci.

Vincenzo Santangelo, scrittore

T’apprestavi a concludere il tuo ciclo,
quando ci conoscemmo, ma non potevamo
sapere che la nostra amicizia
sarebbe durata lo spazio d’un mattino.

Gigi Martorelli, pittore

L’infanzia trascorse all’oratorio dei frati
cappuccini, poi tu, pittore affermato
in solitaria e feconda creatività
io scrittoncello del sottobosco palermitano.

Carmelo Pirrera, poeta scrittore

L’ultima volta che ci vedemmo
eri pieno di vita e d’entusiasmo
e mi dicevi dei tuoi molti progetti
spezzati crudamente all’improvviso.

Santo Calì, poeta

Una croce anche per te fratello Calì
non ti conobbi ma apprezzavo
i tuoi fulminanti epigrammi
contro i potenti di turno.
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A che serve sapere …

A che serve sapere
che estranghelo significa rotondo
oppure che lo gnomone
non è un grande gnomo
e che apertura in lingua portoghese
significa strettezza, costrizione, 
o che stamigna
era un tessuto duro, resistente,
usato per colar qualcosa,
che ab hic et ab hoc semplicemente
è come dire dunque, ossia, perché,
chechi nicchi e nacchi?
è derivato dal quin hic in haclatino puro
e l’interrogativo
in dialetto siciliano antico
sta a significare
che non c’entra un fico secco o intero?
A che serve sapere
che, se due fidanzati si baciano,
stanno ad osculare?

 Renzo Mazzone

domenica 24 maggio 2015

Un bambino sta bene nella culla


“L’Occidente è ripiegato sulle sue illusioni. Coraggio è andare controcorrente”. Parola di cardinale

di Matteo Matzuzzi

“Se si considera l’eucarestia come un pasto da condividere, da cui nessuno può essere escluso, allora si perde il senso del Mistero”. Così ha detto il cardinale Robert Sarah, da pochi mesi prefetto della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, intervenuto al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, in occasione della presentazione della collana “Famiglia, lavori in corso”, una raccolta di saggi editi dalla casa editrice Cantagalli, in vista del prossimo Sinodo ordinario di ottobre. Una collana che ha l’obiettivo di stimolare il confronto e di toccare tutti i temi “caldi”: omosessualità, sessualità, divorzio, procreazione assistita, eutanasia, celibato. Tre volumi hanno aperto la collana, due dei quali scritti da docenti presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia: “Eucaristia e divorzio: cambia la dottrina?” di José Granados (che è anche stato nominato consultore del Sinodo dei vescovi) e “Famiglie diverse: espressioni imperfette dello stesso ideale?” di Stephan Kampowski. Il terzo, “Cosa ne pensa Gesù dei divorziati risposati?” è opera di Luis Sanchez Navarro, ordinario di Nuovo Testamento alla Università San Damaso di Madrid. Il Foglio aveva anticipato ampi estratti dei libri dei professori Granados e Sanchez il 15 aprile scorso.
“L’Occidente – ha detto Sarah rispondendo a braccio ad alcune domande che gli sono state poste dall’uditorio – si sta adeguando sulle proprie illusioni”. Il problema di tutto, ha rimarcato più volte il porporato di cui Il Foglio ha anticipato per l’Italia lo scorso 13 marzo un lungo estratto del libro “Dieu ou rien” uscito in Francia presso Fayard, è nella fede. “Se si pensa che anche nel rito del Battesimo non si menziona più la parola ‘fede’, quando ai genitori viene domandato cosa si chiede per il bambino alla Chiesa di Dio, si comprende l’entità del problema”, ha aggiunto il cardinale guineano, che ha anche biasimato il senso che viene dato oggi al Catechismo: “I bambini fanno disegni e non imparano nulla, non vanno a messa”. Quanto al Sinodo prossimo venturo, l’invito è a non farsi illusioni su cambiamenti epocali: “La gente crede che ci sarà una rivoluzione, ma non potrà essere così. Perché la dottrina non appartiene a qualcuno, ma è di Cristo”. Dopo l’appuntamento dello scorso ottobre, ha osservato Sarah presentando i tre volumi, “fu chiaro che il vero fulcro non era e non è solo la questione dei divorziati risposati”, bensì “se la dottrina della Chiesa sia da considerare un ideale irraggiungibile, irrealizzabile e necessitante quindi di un adattamento al ribasso per essere proposta alla società odierna. Se così stanno le cose, si impone necessariamente una chiarificazione se il Vangelo sia una buona notizia per l’uomo o un fardello inutile e non più proponibile”. La ricchezza del cattolicesimo – ha aggiunto – “non può essere svelata da considerazioni dettate da un certo pragmatismo e dal sentire comune. La Rivelazione indica all’umanità la via della pienezza e la felicità. Disconoscere questo dato significherebbe affermare la necessità di ripensare i fondamenti stessi dell’azione salvifica della Chiesa che si attua attraverso i sacramenti”.
Il problema è anche di quei “sacerdoti e vescovi” che contribuiscono con le loro parole a “contraddire la parola di Cristo”. E questo, ha detto Sarah, “è gravissimo”. Permettere a livello di diocesi particolari quel che ancora non è stato autorizzato dal Sinodo (il riferimento era alla prassi seguita in molte realtà dell’Europa centro-settentrionale) significa “profanare Cristo”. Poco vale invocare la misericordia: “Inganniamo la gente parlando di misericordia senza sapere quel che vuol dire la parola. Il Signore perdona i peccati, ma se ci pentiamo”. Le divisioni che si sono viste lo scorso ottobre, “sono tutte occidentali. In Africa siamo fermi, perché in quel continente c’è tanta gente che per la fede ha perso la vita”. Un appello, il cardinale, l’ha anche lanciato contro chi – membro del clero – usa un linguaggio non corretto: “E’ sbagliato per la Chiesa usare il vocabolario delle Nazioni Unite. Noi abbiamo un nostro vocabolario”. Una puntualizzazione, poi, l’ha voluta fare su una delle massime che vanno per la maggiore dal 2013, e cioè l’uscita in periferia. Proposito corretto, naturalmente, ma a una condizione: “E’ facile andare nelle periferie, ma dipende se lì portiamo Cristo. Oggi è più coraggioso stare con Cristo sulla croce, il martirio. Il nostro dovere è quello di andare controcorrente” rispetto alle mode del tempo, a “quel che dice il mondo”. E poi, “se la Chiesa smette di dire il Vangelo, essa è finita. Può farlo con i modi d’oggi, ma con fermezza”. Infine, un appunto sul calo delle vocazioni sacerdotali nel mondo: “Il problema non è che ci sono pochi preti, quanto capire se quei preti sono davvero sacerdoti di Cristo”.

da www.riscossacristiana.it

Il destino mi è contro? Tanto peggio per il destino

di Maria Angela Masino

«Un giorno, durante una tavola rotonda, un insegnante cattolico, vecchia-guardia e benpensante mi ha detto che quando parlo metto troppa enfasi e un po’ troppa rabbia in quel che dico. Gli ho risposto di provare a fare lo scambio dei corpi: lui prendeva il mio straziato dalla poliomelite io mi infilavo nel suo aitante e abbronzato di montagna, sport, corse all’aperto», dice Vincenzo Russo, docente di Sociologia all’Università per Educatori Fondazione don Gnocchi. «La ribellione ha sempre accompagnato la mia vita ed è stato proprio il non accettare il limite imposto dalla disabilità la motivazione che mi ha spinto a gettare il cuore oltre l’ostacolo, a sfidare la vita, a non arrendermi, a costruire». 
L’infanzia di Vincenzo Russo è trascorsa in istituto lontano dai suoi, la giovinezza alla Siemensdove ha lavorato come operaio, ma anche alle scuole serali, all’Università dove si è laureato in Scienze Politiche. In tutta questa accelerazione di emozioni e impegni ha trascorso buona parte del suo tempo libero a visitare la tomba di don Gnocchi. «Grazie ai dialoghi silenziosi con questo grande uomo ho compreso che potevo pretendere di più da me stesso». É attraverso il colloquio intimo e molto personale con il suo “benefattore” che Vincenzo ha trovato la forza di studiare fino a diventare professore universitario. Altro che scuola da radiotecnico come aveva stabilito per lui una psicologa quando lui faceva le medie!  «Sono nato nel 1950 a Santa Maria Capua Vetere in provincia di Salerno, da piccolo ero felice: giocavo, rincorrevo le galline, correvo. Poi un giorno mia madre mi ha svegliato e non riuscivo a stare in piedi, di lì a poco è seguita l’infausta diagnosi, i ricoveri al Gaslini di Genova, alla Fondazione don Gnocchi di Roma, a Villa Santa Maria Rotonda a Inverigo e poi a Milano». 
Tutto un peregrinare lontano dai suoi genitori, abbandonato da sua madre, o forse solo separato da lei, come ha precisato uno psicoterapeuta durante una seduta. Quando suo padre andava a trovarlo diceva di volergli bene, anche le suore glielo dicevano, così come le ragazze di buona famiglia del Sacro Cuore che andavano a far visita ai disabili con tanto di pacchettini-regalo. Erano belle, vestite con eleganza e alla moda, alcune molto raffinate. «Ho sempre avvertito, quando partecipavo a questi incontri, una sorta di intenso e amaro malessere, quasi a dovermi scusare del disturbo di essere presente. Mi sentivo in un mondo diverso». Col passare degli anni si sarebbe accorto che aveva ragione il suo compagno di studi Gianluca, disabile come lui quando dopo una delusione d’amore ha confessato: «Ciò che fa soffrire di più noi che viviamo questo limite fisico non è la fine di un amore, ma la sensazione che in queste condizioni è davvero difficile essere desiderati, attesi, sognati. Tutti ci vogliono bene. Fratelli, suore, amici, ma nessuno ci aspetta con ansia». 
«Man mano crescevo, la rivoluzione all’esterno infuriava, la musica si faceva più rock, dura come la mia solitudine, aspra come il mio sentire. L’Istituto Maria Nascente in cui ero si è trasformato in Centro Maria Nascente, un luogo dalle regole meno rigide». É qui che Vincenzo Russo incontra padre Giacomo Pala, con una fede contagiosa, cristallina, sempre pronta all’ascolto e senza mai l’arroganza della verità assoluta. «Forse a lui devo buona parte della mia “resilienza”, quella forza d’animo che ci spinge a lottare anche quando tutto rema contro di noi. Quando, a volte, incrociavo giornate storte mi portava in Chiesa, si sedeva all’organo e mi suonava Beethoven. É una musica che mi è rimasta dentro anche quando ho assistito alla deriva della mia famiglia, alla morte dei miei fratelli eroinomani». 
La coerenza e il coraggio di padre Pala si manifestavano in ogni gesto. «Quando ci aiutava a vestire,quando imboccava chi non riusciva da solo, quando, ci caricava in macchina e ci portava a spasso per Milano. Oppure quando ci raccontava della sua vita e delle sue mattane giovanili. Ma anche quando, virilmente, ci mandava a quel paese, esasperato dalle nostre richieste senza fine. Ma subito poi di nuovo lì, con noi. Con lui mi sentivo spensierato, fidanzato con la vita». È stato padre Pala a insegnare a Russo che la lealtà, prima che un diritto dell’altro, è un dovere verso se stessi, e si pronuncia dignità. «É stato lui a dirmi di non farmi fregare dalla poliomielite. Perché il mio male è nelle gambe, non nella testa».
Vincenzo Russo, era un operaio, ora è un vero uomo. Nel 1979 consegue il diploma di media superiore, il 12 luglio 1986 in una calda giornata di sole la laurea. Per la prima volta ha scoperto di essere fiero di se stesso. Sono seguiti vari incarichi importanti fra cui la direzione di un centro socio educativo e poi l’insegnamento universitario. C’è da essere soddisfatti, certo. La “modalità resilienza” è sempre sul tasto on. Tranne su un argomento: «avrei voluto amare una donna, essere padre, sentire qualche volta il profumo di minestra quando la sera faccio rientro a casa. Avrei voluto non conoscere mai il dolore che ha provocato in me il distacco da mia madre. Anche se devo a lei, in fondo, gli incontri con Don Carlo Gnocchi e padre Giampaolo Pala che hanno cambiato la mia vita. Perché hanno acceso la mia resilienza».
Vincenzo Russo, Se il destino è contro di me peggio per il destino, Milano, Mursia, 2009, 174 pagine, 12 euro.

da www.lanuovabq.it

Permesso, grazie, scusa. Parole sante, altro che bon ton

di Massimo Introvigne

Continuando nel suo ciclo di catechesi sulla famiglia, il 13 maggio 2015 Papa Francesco ha proposto una riflessione sulla buona educazione, che – secondo le parole di San Francesco di Sales – «è già mezza santità», e che va riproposta oggi mentre una «civiltà delle cattive maniere» esalta la maleducazione come se fosse «un segno di emancipazione».
Il Papa ha richiamato tre parole che, nel suo Magistero, ha citato più volte: «permesso, grazie, scusa», sottolinenando il ruolo che hanno nella vita in famiglia. «Sono parole semplici», ha detto, «ma non così semplici da mettere in pratica! Racchiudono una grande forza: la forza di custodire la casa, anche attraverso mille difficoltà e prove; invece la loro mancanza, a poco a poco apre delle crepe che possono farla persino crollare».
Commentando la citazione di San Francesco di Sales secondo cui «la buona educazione è già mezza santità», il Papa ha invitato a non confondere l’autentica buona educazione con un «formalismo delle buone maniere che può diventare maschera che nasconde l’aridità dell’animo e il disinteresse per l’altro. Si suole dire: “Dietro tante buone maniere si nascondono cattive abitudini”». Nemmeno la stessa religione «è al riparo da questo rischio, che fa scivolare l’osservanza formale nella mondanità spirituale. Il diavolo che tenta Gesù sfoggia buone maniere – ma è proprio un signore, un cavaliere – e cita le Sacre Scritture, sembra un teologo. Il suo stile appare corretto, ma il suo intento è quello di sviare dalla verità dell’amore di Dio».
L’uso ipocrita delle buone maniere non deve però portarci a svalutare la buona educazione. Noi infatti «intendiamo la buona educazione nei suoi termini autentici, dove lo stile dei buoni rapporti è saldamente radicato nell’amore del bene e nel rispetto dell’altro. La famiglia vive di questa finezza del voler bene». Francesco ha quindi esaminato, una per una, le tre parole che cita spesso – permesso, grazie, scusa -, iniziando da “permesso”.
«Quando ci preoccupiamo di chiedere gentilmente anche quello che magari pensiamo di poter pretendere, noi poniamo un vero presidio per lo spirito della convivenza matrimoniale e famigliare. Entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. La confidenza, insomma, non autorizza a dare tutto per scontato».
Il richiamo all’amore non scusa tutto. In verità l’amore, «quanto più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore». Nell’Apocalisse leggiamo le parole di Gesù: «Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Il Papa commenta che «anche il Signore chiede il permesso per entrare! Non dimentichiamolo».
La seconda parola è “grazie”. «Certe volte viene da pensare che stiamo diventando una civiltà delle cattive maniere e delle cattive parole, come se fossero un segno di emancipazione. Le sentiamo dire tante volte anche pubblicamente. La gentilezza e la capacità di ringraziare vengono viste come un segno di debolezza, a volte suscitano addirittura diffidenza».
È un grave errore è una tendenza che «va contrastata nel grembo stesso della famiglia. Dobbiamo diventare intransigenti sull’educazione alla gratitudine, alla riconoscenza: la dignità della persona e la giustizia sociale passano entrambe di qui. Se la vita famigliare trascura questo stile, anche la vita sociale lo perderà». Inoltre per un cristiano la gratitudine «è nel cuore stesso della fede: un cristiano che non sa ringraziare è uno che ha dimenticato la lingua di Dio». Il Pontefice ha ricordato l’amarezza di Gesù cui fa cenno il Vangelo di Luca, quando guarì dieci lebbrosi e solo uno di loro tornò a ringraziare (cfr Lc 17,18).
La terza parola è “scusa”. «Parola difficile, certo, eppure così necessaria. Quando manca, piccole crepe si allargano – anche senza volerlo – fino a diventare fossati profondi». Chiedere scusa significa dichiarare di avere compreso che esistono il bene e il male, e del male fatto – grande o piccolo – dobbiamo chiedere perdono. «Riconoscere di aver mancato, ed essere desiderosi di restituire ciò che si è tolto – rispetto, sincerità, amore – rende degni del perdono. E così si ferma l’infezione. Se non siamo capaci di scusarci, vuol dire che neppure siamo capaci di perdonare. Nella casa dove non ci si chiede scusa incomincia a mancare l’aria, le acque diventano stagnanti. Tante ferite degli affetti, tante lacerazioni nelle famiglie incominciano con la perdita di questa parola preziosa: “Scusami”».
Infine, il Papa ha ripreso un consiglio che aveva già dato diverse volte alle coppie. «Nella vita matrimoniale si litiga tante volte… anche “volano i piatti” eh!, ma vi do un consiglio: mai finire la giornata senza fare la pace». «Sentite bene: avete litigato moglie e marito? Figli con i genitori? Avete litigato forte? Ma non sta bene. Ma non è il problema: il problema è che questo sentimento sia presente il giorno dopo. Per questo se avete litigato mai finire la giornata senza fare la pace in famiglia. E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così. E l’armonia familiare torna, eh! Basta una carezza! Senza parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace».
Le tre parole «permesso, grazie, scusa», ha concluso Papa Francesco, «sono parole semplici, e forse in un primo momento ci fanno sorridere. Ma quando le dimentichiamo, non c’è più niente da ridere, vero? La nostra educazione, forse, le trascura troppo. Il Signore ci aiuti a rimetterle al giusto posto, nel nostro cuore, nella nostra casa, e anche nella nostra convivenza civile».

da La Nuova Bussola Quotidiana

giovedì 21 maggio 2015

Cattolici ‘conservatori’: una supplica, un manuale

di Giuseppe Rusconi 
Crescono le iniziative di ambienti cattolici ‘conservatori’ in vista del secondo Sinodo di ottobre sulla famiglia: ieri a Roma presentato un manuale ‘da combattimento’ con cento domande e risposte su Chiesa e famiglia, autori tre vescovi. Nel contempo si è fatto il punto anche sulla ‘Supplica filiale’ rivolta a papa Francesco e già sottoscritta da oltre 230mila persone nel mondo, tra cui quattro cardinali.
Sul fronte effervescente dell’intersinodo cresce la mobilitazione di alcuni ambienti cattolici ‘conservatori’, in forte allarme per certe ‘aperture’ in materia di famiglia emerse prima, durante e dopo il Sinodo dell’ottobre scorso. Ieri, in una conferenza-stampa tenuta a Roma presso l’Hotel Columbus in via della Conciliazione, è stato presentato un manuale ‘da combattimento’ con cento domande e risposte atte a riproporre con chiarezza la dottrina consolidata della Chiesa sull’argomento. Tale iniziativa va inserita anche nell’ambito della ‘supplica filiale’, la raccolta di firme indirizzata a papa Francesco, perché tenga in considerazione ansie e speranze intorno al Sinodo di chi teme un’insensata deriva secolare della Chiesa in tema di famiglia.
Sono due iniziative nate da una parte assecondando il forte invito del Papa – ribadito più volte - perché i laici siano protagonisti nella vita della Chiesa, dall’altra dando seguito in particolare a un appello del  cardinale Raymond Burke. Che aveva chiesto a “tutti i cattolici” – anche in un’intervista dello scorso dicembre a Jean-Marie Guénois del Figaro – di impegnarsi in vista del secondo Sinodo “al fine di evidenziare la verità sul matrimonio (…) perché la Chiesa deve difendere il matrimonio e non indebolirlo in un’epoca piena  di confusione” come la nostra.
CINQUANTA DI FAMIGLIA NOBILE E OLTRE 230MILA SENZA CORONA
Scorrendo “l’elenco delle personalità firmatarie” della supplica (ne sono citate circa 200), uno potrebbe anche maliziosamente e ironicamente evidenziare – come qualcuno ha fatto - la cinquantina di nobili presenti per definire l’iniziativa come quella di un gruppo di nostalgici dell’Ancien Régime : si va dall’erede della “Real Casa del Portogallo” a quello dell’ “Imperial Casa del Brasile”,  Braganza e Orléans Braganza. Non manca nemmeno l’arciduchessa Alessandra d’Asburgo insieme con diversi nobili tedeschi e italiani. E c’è anche un re, seppure in esilio: Kigeli V del Ruanda. Eppure con la cinquantina di nobili legittimamente fieri della loro identità hanno firmato la supplica oltre 230mila altre persone: difficile credere che siano tutte immerse nei leziosi minuetti dei salotti settecenteschi. Già tra le ‘personalità’ troviamo quattro cardinali: in ordine alfabetico il tedesco Walter Brandmueller, lo statunitense Raymond Leo Burke, il cileno Jorge Arturo Medina Estevez e il lettone Janis Pujats (che lunedì 18 maggio ha osservato davanti a una commissione parlamentare che “è duro da dire, ma perfino i regimi di Hitler e di Stalin non hanno osato elevare la pederastia al rango di politica dello Stato. Disgraziatamente tale infamia è divenuta realtà nell’Unione europea (…) che ha lanciato una crociata interna contro la fede cristiana”). Poi tra gli altri una ventina di arcivescovi e vescovi, il sottosegretario emerito della Congregazione per il culto divino (lo spagnolo Juan Miguel Ferrer Grenesch), il segretario della Pontificia Accademia Latinitas (il salesiano fr. Roberto Spataro),  alcuni membri della Pontificia Accademia della Vita (Gormally, Seifert, Waldstein, Ward), anche Carlo Casini (presidente per decenni e fino a poco del Movimento italiano per la Vita) lo storico tedesco Michael Hesemann, il politico statunitense Rick Santorum (già candidato per strappare la nominationrepubblicana per le ultime elezioni presidenziali), oltre ai responsabili di una trentina di associazioni che nel mondo lottano per vita e famiglia.
Del testo della “Supplica filiale” evidenziamo soprattutto due punti. Il primo: “Constatiamo (“con dolore” e “alla luce delle informazioni veicolate in occasione dello scorso Sinodo”) un generalizzato disorientamento causato dall’eventualità che in seno alla Chiesa si apra una breccia tale da permettere l’adulterio – in seguito all’accesso all’Eucaristia di coppie divorziate e risposate civilmente – e perfino una virtuale accettazione delle unioni omosessuali”. Il secondo: “In questa situazione una parola chiarificatrice di Vostra Santità è l’unica via per superare la crescente confusione tra i fedeli. Siamo sicuri che la Vostra parola non potrà mai dissociare la pratica pastorale dall’insegnamento lasciato in eredità da Gesù Cristo e dai suoi vicari, perché ciò renderebbe più grave la confusione”.
Durante la conferenza-stampa di ieri è intervenuto anche l’inglese John Smeaton, co-fondatore tra l’altro di Voice of family, associazione mantello creata in occasione del primo Sinodo per la famiglia. Secondo Smeaton “l’odierna crisi in campo cattolico deriva in parte anche da dichiarazioni fatte dal Santo Padre”. Il relatore ha criticato “il silenzio dei documenti sinodali per quanto concerne ad esempio aborto, eutanasia, suicidio assistito, ideologia del gender” e la “studiata ambiguità su omosessuali e adozione di bambini”. A quest’ultimo proposito Smeaton ha riferito che in diverse scuole cattoliche inglesi la nota lobby entra senza difficoltà per indottrinare gli allievi “con la benedizione del vescovo locale”. Un fatto grave, come lo è stato in un altro ambito anche   l’invito fatto dalla Pontificia Accademie delle Scienze per il recente simposio ambientalista al segretario generale dell’ONU Ban Ki Moon e a Jeffrey Sachs (direttore dell’Earth Institute) ambedue “favorevoli al controllo delle nascite e all’aborto, ostili alle posizioni cattoliche in materia”.
“OPZIONE PREFERENZIALE PER LA FAMIGLIA: CENTO DOMANDE E CENTO RISPOSTE ATTORNO AL SINODO”
E’ stato il professor Tommaso Scandroglio (Università europea di via degli Aldobrandeschi) a introdurre e moderare la conferenza-stampa, convocata anche per illustrare il volumetto “Opzione preferenziale per la famiglia”, pubblicato dalle Edizioni Supplica Filiale. Un vero e proprio manuale, che – ha rilevato Scandroglio – “non vuol essere uno strumento apologetico della sana dottrina cattolica” ma invece “riproporre i principi su cui si regge l’insegnamento del Magistero in materia di famiglia”.
Il manuale è stato redatto da tre vescovi ‘conservatori’: l’arcivescovo di Paraiba (Brasile) Aldo Di Cillo Pagotto, il vescovo di Santa Rosa (California) Robert Francis Vasa, il vescovo ausiliare di Astana (Kazakhstan) Athanasius Schneider. Tutti e tre sono conosciuti come interpreti rigorosi della dottrina cattolica in materia di vita e famiglia. Mons. Schneider è noto anche per l’analisi tanto preoccupata quanto impietosa della situazione odierna (anche liturgica) all’interno del mondo cattolico.
Il manuale si apre con la prefazione del cardinale Medina Estevez: “Sembra una valutazione oggettivamente vera dire che la famiglia sta attraversando una crisi grave e profonda. Davanti a questa realtà non sarebbe saggio un atteggiamento che la ignori o la minimizzi: va presa in considerazione, si devono misurare le sue dimensioni e la sua magnitudine ed è necessario individuare i mezzi per superarla. A ciò mira il volume”.
Tredici i capitoli in cui si suddividono le cento domande e risposte, che si connotano per un linguaggio agile ed accessibile al lettore medio. Si parte da quel che è un Sinodo e dalla preparazione all’appuntamento dell’ottobre 2014. Si passa a “Chiesa e famiglia” e attraverso altri capitoli ad esempio su “Dottrina morale e prassi pastorale” e “Coscienza personale e Magistero”, si arriva a “matrimonio e famiglia” e alle note delicate questioni riguardanti divorziati risposati e omosessuali. Assai interessante e un po’ a sé il capitolo XI su “alcune parole-chiave del dibattito sinodale”, parole definite “talismano”, perché spesso stravolte nel loro significato originale dall’uso che se ne fa oggi, piegato alle esigenze dell’obiettivo ‘aperturista’ da raggiungere: tra loro “approfondimento”, “persone ferite”, “misericordia”.  Nelle risposte spesso appaiono citazioni di papi come Giovanni Paolo II  - e dell’Istituto Giovanni Paolo II per la famiglia  - o Benedetto XVI  (anche di Leone XIII, Pio XI, Pio XII, Paolo VI, una di papa Francesco) o cardinali come Velasio De Paolis, Carlo Caffarra, Robert Sarah, Gerhard Müller, Walter Brandmüller.
Con il manuale si tratta, ha rilevato ancora Tommaso Scandroglio, di stimolare tutti a un esame della propria coerenza di pensiero e comportamenti con la dottrina cattolica. Come si fa a dire “Io sono cattolico e sono favorevole all’aborto, all’eutanasia, ai ‘matrimoni gay’, all’adozione in questi ultimi casi?” Sarebbe come proclamare di essere ambientalista e nel contempo inquinare i fiumi. Inoltre, ha evidenziato Scandroglio, in molti casi in cui c’è nel mondo cattolico una discussione aperta sui noti temi delicati, la dottrina cattolica già “è ben definita e cristallizzata”. E ciò dovrebbe bastare.
Concludiamo con un paio di esempio di domande e risposte. Numero 40: “Visto che oggi molti fedeli ormai non seguono la morale cattolica, non sarebbe il caso di tollerare certe situazioni irregolari pur di attrarre più persone alla Chiesa?”. Risposta: “Un solo ipotetico, anzi improbabile, aumento della pratica religiosa di alcune persone in situazione irregolare, cioè illegittima oppure immorale, non può essere ottenuto al caro prezzo di smentire la morale evangelica e il Magistero ecclesiale e di indebolire la fede dei fedeli in regola. Se la Chiesa poi cambiasse una dottrina e una prassi bimillenarie sul matrimonio, perderebbe credibilità su ciò che potrà insegnare domani”.
Numero 91. “Nel dibattito sinodale la ‘misericordia’ è il criterio-guida di ogni approccio pastorale; questo criterio non dovrebbe forse prevalere sulle esigenze della dottrina morale in modo da cambiarne il giudizio?” Risposta: “La misericordia può superare la giustizia ma non può violarla, altrimenti sarebbe ingiusta; tantomeno può smentire la verità, altrimenti sarebbe falsa. Inoltre, proprio per il fatto di operare nel campo pratico, la misericordia non può interferire in quello dottrinale, per cui non può mutare il giudizio morale sulla condotta”.

Mostra virgo et virago

Si inaugurerà venerdì 5 giugno 2015, alle ore 18.00, presso lo spazio espositivo di “Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato” in Corso Umberto n. 183 di Cinisi, la mostra collettiva dal titolo: “Virgo et Virago”. 
La mostra, dopo l’esposizione di Palermo, presso la galleria Studio 71, arriva oggi in uno dei luoghi divenuto simbolo di riscatto sociale e di legalità: Ex Casa Badalamenti, spazio espositivo di “Casa Memoria”. 
Curata da Vinny Scorsone, l’esposizione si focalizza principalmente sulla trasmissione di un messaggio di uguaglianza che travalica il discorso prettamente femminile estendendosi a tutte quelle categorie sociali soggette a discriminazioni; per far ciò, si è scelto, provocatoriamente, di “indagare” la donna da due angolazioni opposte, quella della vittima (virgo) e quella della carnefice (virago). 
Due concezioni, due modi di essere opposti che, a volte, dimorano in un unico corpo.
Nella nostra società, prevalentemente maschile, in cui quando ci si riferisce alla donna spesso si mette in evidenza soprattutto l’aspetto fisico (legandolo prevalentemente al sesso), si sottolinea la sua presunta fragilità, la sua “naturale” propensione alla maternità, l’idea di una donna forte e feroce, spesso nei confronti della persona amata, arrivista e prevaricatrice, che rifiuta l’idea stessa di essere madre, difficilmente è presa in considerazione e quando ciò accade, l’etichetta che le si appone è sempre la stessa. 
Le opere esposte ci raccontano di donne vittime o di uomini o di altre donne (a volte anche di se stesse), di assassine, di novelle Medee. Donne che subiscono e donne aguzzine (succubi, a loro volta, di poteri al di sopra di esse), prostitute per costrizione o per scelta (oggetti sessuali o padrone del proprio corpo), angeli e diavoli, sabine ed amazzoni, clarisse e baccanti, martiri o arpie. 
Foto, dipinti, disegni, oggetti ci offrono uno spaccato sul nostro mondo, tormentato e carico d’angoscia, in cui vestali e gorgoni rivivono nei secoli le medesime afflizioni, gli stessi dolori e la stessa rabbia. 
Un “discorso” artistico che ha coinvolto personalità di entrambi i sessi, provenienti da differenti campi (dalla pittura alla pubblicità, dal design alla danza, dalla poesia alla fotografia), che hanno dato una rappresentazione, del tema proposto, unanime.
Gli artisti: Antonella Affronti, Daniela Balsamo, Paolo Baratella, Pierluigi Berto, Ilaria Caputo, Aurelio Caruso, Pina Cirino, Filli Cusenza, Giuseppa D’Agostino, Angelo Denaro, Roberto Fontana, Kindia, Pino Manzella, Malena Mazza, Nico Nardomarino, Franco Nocera, Luca Patrone, Salvatore Pizzo, Vanni Quadrio, Rosaria Randazzo, Giuseppina Riggi, Euro Rotelli, Giusto Sucato, TrapaniCalabretta, Elide Triolo, Tiziana Viola Massa. 
La mostra potrà essere visitata tutti i giorni, compresa la domenica, fino al 20 giugno con i seguenti orari: dalle 11.00 alle 13.00. Il pomeriggio la mostra potrà essere visitata su prenotazione telefonando ai seguenti numeri: numero casa memoria 334 1689181 - 091 8666233 – Mara 3311490946.
Dal 4 al 31 luglio la mostra sarà esposta presso il Museo degli Angeli di Sant’Angelo di Brolo ME.