venerdì 31 luglio 2015

Carattere, dignità, coscienza… dove sono state sepolte?

di Giovanni Lugaresi

Quando, insieme a Giovanni Papini, nel 1908, fondò la rivista “La Voce”, Giuseppe Prezzolini scrisse fra l’altro che quel che difettava agli italiani era il carattere.
Questa mancanza di carattere la si coglie con mano, per così dire, nelle cose, nei comportamenti, attraverso il tempo: dal suo, quello di Prezzolini, per l’appunto, nel quale un uomo come Giovanni Amendola poteva dire “l’Italia, come oggi è, non ci piace”, fino al nostro – con poche eccezioni.
E, infatti, la mancanza di carattere contraddistingue uomini di tutti i partiti e delle classi sociali, seppure si possa ancora parlare di classi sociali quando, per esempio, nei confronti del ceto medio è in atto un’opera di distruzione attraverso vessazioni di vario genere, a incominciare dalla pressione fiscale.
Mancanza di carattere. Come altrimenti definire, per esempio, le conclamate, reiterate, affermazioni di innocenza da parte di uomini politici indagati per reati seri, gravi, quando poi i medesimi personaggi scendono a compromessi, patteggiando con la giustizia, dopo avere affermato sarebbero andati sino in fondo, affrontando financo il carcere?
E sentirli piagnucolare, tremebondi, lamentare la durezza del carcere stesso, dopo avere manifestato per anni spocchia, alterigia, sicurezza di loro stessi?
Mancanza di carattere, appunto. Aggiungiamo un’altra parola-valore: dignità…
Le cronache quotidiane riferiscono questi atteggiamenti, questi comportamenti, che per una sorta di contrappeso, almeno per noi, rimandano ad anni lontani, ad un personaggio, ad un evento, testimonianti carattere e dignità.
Anno: 1954; personaggio: Giovannino Guareschi, giornalista e scrittore di successo planetario; evento: processo per diffamazione a mezzo stampa per via della lettere (ritenute apocrife) a firma Alcide De Gasperi, a un comando alleato indirizzate, nel 1944, con la richiesta di bombardare la zona periferica di Roma, nonché l’acquedotto, per indurre i romani a insorgere contro i tedeschi.
Il processo non fu… un processo, dal momento che alla difesa (avvocati Lener e Porzio) dell’imputato Guareschi non fu concesso alcun diritto: né la perizia calligrafica e chimica sulle lettere in questione da parte di esperti nominati dal tribunale, né l’audizione dei testimoni dai legali richiesta. De Gasperi aveva un “alibi morale” di tale levatura, per cui si ritenne inopportuno, inutile, riconoscere un diritto che al più incallito dei delinquenti non si sarebbe negato. Infatti a Guareschi non venne concesso.
Morale: condanna. E per farla breve: 409 giorni di galera nel carcere di San Francesco a Parma, per un uomo che già aveva provato l’esperienza dei lager nazisti, e che, nel caso presente aveva rifiutato di ricorrere in appello, con motivazioni che denotano, appunto, come si trattava di un carattere, di una dignità, non comuni in questo paese.
Nessuna lamentazione, nessun piagnisteo, ma fedeltà alla propria coscienza, e… avanti, in galera.
“Qui non si tratta di riformare una sentenza – scriveva Guareschi in una lettera aperta ai suoi legali pubblicata sul settimanale Candido – ma un costume. La sentenza è regolare, ha il crisma della legalità. Il costume è sbagliato, e non è una questione che riguardi la Magistratura: è una questione di carattere generale, che riguarda l’Italia intera.
“Non è un colpo di testa.
“Io non ho il temperamento dell’aspirante eroe o dell’aspirante martire.
“Io sono un piccolo borghese, un qualsiasi padre di famiglia, che avendo dei figli ha dei doveri.
“Primo dovere… quello di insegnare ai figli il rispetto della dignità personale…
“In tutta questa faccenda hanno tenuto conto dell’alibi morale di De Gasperi e non si è neppure ammesso che io possegga un alibi morale. Quarantacinque o quarantasei anni di vita pulita, di lavoro onesto, non sono un luminoso alibi morale? Me l’hanno negato. Hanno negato tutta la mia vita, tutto quello che io ho fatto nella vita.
“Non si può accettare un sopruso di questo genere […].
“M’avete condannato alla prigione?
“Vado in prigione.
“Accetto la condanna […]
“Non mi pesa la condanna in sé, ma il modo […].
“No, niente Appello. La mia dignità di uomo, di cittadino e di giornalista libero è faccenda mia personale, e in questo caso accetto soltanto il consiglio della mia coscienza
“Riprenderò la mia vecchia e sbudellata sacca di prigioniero volontario e mi avvierò tranquillo e sereno in quest’altro Lager.
“Ritroverò il vecchio Giovannino fatto d’aria e di sogni e riprenderò, assieme a lui, il viaggio incominciato nel 1943 e interrotto nel 1945.
“Niente di teatrale, niente di drammatico. Tutto semplice e naturale.
“Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione”…
Già: “Niente di teatrale, niente di drammatico. Tutto semplice e naturale”.
Ma quello era un uomo! Nel cui vocabolario erano ben presenti parole, come, appunto, carattere, dignità, coscienza…
Avete sentito in giro, fra politici inquisiti o altra gente di potere inquisita, un discorso come quello di Giovannino Guareschi?
Se sì, segnalatecelo. Avremo piacere di leggerlo.
P.S. Quando Guareschi finì in galera il figlio Alberto aveva 14 anni e la figlia Carlotta 11. La moglie Ennia (la Margherita del Corrierino delle famiglie) gli fu accanto senza tentennamenti e senza dubbi. Mai a Giovannino e alla moglie passò in mente l’idea di chiedere la grazia.
Nel 1954 la condizione delle carceri italiane e del regolamento carcerario erano molto, molto, molto diverse da quelle dell’anno di grazia 2015!!!

da: www.riscossacristiana.it

lunedì 27 luglio 2015

Longanesi e italiani

di Luca Fumagalli

Era decisamente basso, e la cosa lo indispettiva non poco, ma il volto dai tratti decisi e una certa qual cura nel vestire lo rendevano comunque un tipo affascinante. Si muoveva a passo deciso sui marciapiedi delle grandi città italiane, a partire dalla sua cara Bologna, smanioso come chi avverte l’impellenza di raggiungere un luogo che gli è indispensabile, quasi liberatorio. Quel luogo era la redazione del suo giornale, un turbolento paradiso fatto di vittorie e sconfitte, trovate brillanti ma anche rancorosi battibecchi. L’uomo amava definirsi simpaticamente un “carciofino sott’odio” e per lui sarebbe stato impossibile vivere nella placida calma garantita dalla serenità lavorativa e famigliare. Amava le dicotomie, le opposizioni, gli scontri, in lui conviveva tutto e il contrario di tutto, era un ribelle, un “uomo contro” e soleva opporsi, almeno in certa misura, anche a se stesso. Dapprima fu un fascista critico, decisamente infastidito dall’ottusità del regime, più tardi un singolare borghese antiborghese, nostalgico sognatore di un mondo orami defunto.

La storia di Leo Longanesi (1905-1957) è quella di un anarchico di destra, di un disegnatore, scrittore e regista, ma, soprattutto, di colui che, a buona ragione, può essere definito il padre del giornalismo italiano del dopoguerra. Tra i suoi allievi si annoverano numerosi giovani e meno giovani che, durante il ventennio fascista, subirono il suo ascendete; a nomi noti come quelli di Pannunzio, Delfini, Pellizzi, Ansaldo e Montanelli si associa poi una folta schiera che, seppur spesso opposta dal punto di vista politicò, restò irrimediabilmente stregata dal genio innovatore del ragazzo di Bagnacavallo. Ogni nuovo giornale che diresse – e furono circa una decina – si distinse per un desiderio di novità e modernità che sovente mancava nella stampa italiana, arroccata in un provincialismo che sapeva di conservatorismo stantio. Non si trattava tanto di copiare i modelli estetici o culturali del mondo francese o anglosassone, quanto di portare nell’italietta degli anni ’20 un alito d’internazionalità. Con questo spirito nacquero riviste come “L’italiano”, “Omnibus” – il padre del moderno rotocalco – e, più tardi, “Il Borghese”, che lo portarono a vivere prima a Roma e poi a Milano. A questi tentativi si associò in seconda battuta la fondazione della casa editrice Longanesi, avvenuta nel 1946 con l’indispensabile finanziamento dell’industriale Giovanni Monti.
Factotum indefesso, Longanesi firmava articoli, si occupava della veste grafica, impaginava e selezionava con cura i singoli pezzi, sempre disposto a mettere tutto in discussione fino all’ultimo momento. Alla scelta di un carattere elegante come l’amato Bodoni si accompagnava la sua celebre irriverenza, rintracciabile soprattutto nelle vignette e nelle composizioni fotografiche. Longanesi era infatti un vero e proprio artigiano la cui sapienza risiedeva nelle forbici e nella colla. Costretto dalle scarse risorse a disposizione a inventare nuove soluzioni estetiche in grado di catturare l’attenzione del lettore, divenne un’abile maestro nella ricerca d’archivio e nel collage, non curandosi di rispettare l’integrità ortodossa dell’immagine, mosso solamente dall’intento di rimodellare lo scatto a suo piacimento assegnandogli un significato inedito. In questo divertente esercizio di invenzione del reale, la sua estetica si avvicinava al tipo promosso dal dadaismo e dalle avanguardie in voga all’epoca (ovviamente detestate da Longanesi che soleva ammonire: «Non comprate quadri moderni: fateveli in casa»). L’object trouvé, la foto incastonata tra le colonne del testo piuttosto che la vecchia vignetta riadattata per l’occasione, è parte di un mondo ideale in cui la scelta si carica di spirito dinamitardo, un ghigno che sottende un’arrogante sfida lanciata al mondo.

Medesima funzione svolgevano gli aforismi, frasi brevi al vetriolo che Longanesi coniava con insuperata facilità. Alcune espressioni oggi proverbiali come “votare turandosi il naso” sono da attribuire al genio del romagnolo. Coerente propugnatore di un canone letterario in cui era abolito il fronzolo e l’inutile, nell’essenziale era in grado di condensare con abilità messaggi sarcastici che avevano anche un altro vantaggio: quello di fugare qualsiasi tentazione di banale qualunquismo, ciò che Longanesi percepiva certamente come la più pericolosa tra le numerose “bestie nere” che affollavano i suoi incubi. Al radar di quell’intellettuale antintellettuale non sfuggiva praticamente niente: politica, costume, cultura e società erano ambiti ugualmente adatti per sfoderare la sottile lama dell’aforisma, pronto a sentenziare su tutti quegli atteggiamenti deprecabili che ammorbavano la penisola italiana nella prima metà del secolo. “Siamo conservatori in un paese in cui non c’è nulla da conservare”, “Una società fondata sul lavoro non sogna che il riposo” e “L’omosessualità è un’estetica come la massoneria è una religione” sono solo alcuni esempi di questo atteggiamento schietto che, alla maniera di Chesterton, fa dell’ossimoro una regola di vita.
Eppure dietro la maschera del sorriso Longanesi nascondeva una profonda tristezza che spesso sfogava in un cinismo nichilista. Alla delusione maturata durante il periodo fascista si assommò il disprezzo per l’Italia del CLN, troppo vacua, esterofila e antieroica per essere amata da un uomo che affrontava il dopoguerra con l’incomodo portato di una scottante delusione. Il passaggio dal fascismo all’opposizione al regime – cosa che, tra l’altro, causò nel 1939 la chiusura di “Omnibus” dopo neanche due anni dalla fondazione – era già emerso tra le pagine del suo primo libro,Vade-mecum del perfetto fascista (1926), in cui, all’ombra di un’educazione apparentemente allineata alle indicazioni del regime, si nascondevano i soliti messaggi dissacranti. Dal celebre “Mussolini ha sempre ragione”, che suona come una candida ammissione del contrario, si passa alla demistificazione dell’apparato fascista proprio a partire dalle stesse parole forti del ventennio: “Questi sono consigli, tu, alla maniera fascista, fregatene, ma ricordati che a forza di fregarsene si arriva all’anarchia”. Longanesi rimproverava a Mussolini di non aver realizzato l’ideale strapaesano che aveva accompagnato la sua gioventù. Fu infatti collaboratore e amico di Maccari, fondatore de “Il Selvaggio”, e principale animatore di quel movimento letterario e culturale che, nell’alveo di uno spirito patriottico, si poneva in contrapposizione al progressismo tecnologico e industriale propugnando, al contrario, un ritorno all’arcadia rurale della piccola Italia, fatta di localismi inestinguibili e di tradizioni millenarie. Caduto il mito della “nuova aristocrazia” dei Ras, il ritratto che Longanesi fa del paese è quello di un baratro, dove tutto è avvolto dall’odore di morte e degrado. La lussuria dei capi che gozzovigliano mentre la penisola è in fiamme è la metafora di un popolo incapace di mostrare un pur minimo sussulto morale. Il coltello, il rosario e il bicchiere di vino, simbolo longanesiano di Strapaese, erano stati definitivamente distrutti.
Se Longanesi aveva nutrito forti speranze nel fascismo, il periodo democratico fu per lui del tutto privo d’attrattiva. La democrazia non lo sorprese mai, neppure per un istante, in un atteggiamento di benevola attesa. Lontano da qualsiasi tentazione di valutazione etica del ventennio, vedeva nella modernità, come in uno specchio, le medesime tenebre degli anni precedenti. Nulla era cambiato, esisteva una sorta di accordo di fondo che esprimeva un’inalterabile continuità in negativo tra presente e passato. All’epoca de “Il Borghese”, infatti, in gioco non era tanto la difesa del cosiddetto ceto medio – che, detto per inciso, non amò mai Longanesi – quanto quella di un vagheggiato mondo di fine XIX secolo, un passato ideale, ascrivibile alla Belle Epoque, all’età giolittiana, a un periodo in cui l’Italia era in qualche mondo migliore. L’ultimo Longanesi fu quindi una sorta di vate del crepuscolarismo, un gozzanianio cantore delle «buone cose di pessimo gusto», puntualmente tormentato dal tarlo di un’immagine del fascismo destinata a riemergere dalle ombre con toni meno negativi. Per lui, comunque, gli italiani rimasero sempre «animali feroci e casalinghi».
I libri, le fotografie e le immagini sono ancora oggi la testimonianza più preziosa di una vita spentasi ancora in giovane età, quasi che Longanesi, davanti alle amarezze di un mondo in macerie, non trovasse più un valido motivo per continuare a vivere. Dalla morte sono però scampati gli insegnamenti di una delle figure più insigni della cultura italiana del XX secolo, un uomo che ha insegnato a molti il coraggio di opporsi, di essere intelligenti, profondi, di non accontentarsi mai di facili risposte o soluzioni banali. Ma, soprattutto, quello che di lui ancora sopravvive è l’inconfondibile sorriso, il sarcasmo di uno dei pochi che durante la sua esistenza ha avuto il coraggio di affrontare a volto scoperto il suo più acerrimo nemico: se stesso.


da: www.radiospada.org

Inaugurata a palazzo Cutò di Bagheria la nuova sede della "Bagnera"



da: "Il settimanale di Bagheria", 26 luglio 2015

venerdì 24 luglio 2015

Riportiamo in patria i Re d’Italia

di Cristina Siccardi

Dopo il recente attentato al Consolato italiano in Egitto, un accorato e composto appello è giunto dalla Principessa Maria Gabriella di Savoia, che ha inviato una lettera al Direttore de il Giornale, Paolo Granzotto, il quale il 16 luglio scorso l’ha prontamente pubblicata con il titolo: Non lasciamo all’Isis la tomba del Re Soldato (www.ilgiornale.it ).
Scrive Maria Gabriella: «Quest’anno si celebra il centenario del primo conflitto mondiale nel corso del quale mio nonno, il Re Soldato, a unanime giudizio degli storici, si portò in maniera esemplare, favorendo il compimento del processo di unificazione col riunire all’Italia gli ultimi lembi di territorio in mano straniera. In considerazione delle gravi tensioni e violenze che stanno interessando l’Egitto, ritengo che per un dovere civile e morale sia giunto il momento di procedere al rientro delle salme di Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena: per salvarne la loro e la nostra collettiva memoria. Molte nazioni oggi repubblicane ma che furono monarchie hanno provveduto al rimpatrio delle salme dei loro regnanti e ciò non solo in segno di pacificazione nazionale, ma anche nel rispetto della tradizione storica. Perché il nostro paese non può fare altrettanto?».
L’appello è stato presentato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella «certi che da risoluto e generoso rappresentate dell’unità nazionale qual è, non ne resterà sordo», ha scritto Granzotto il 16 luglio stesso, «D’altronde quello che lei chiede è un atto di carità, di rispetto e di giustizia: Vittorio Emanuele III lasciò l’Italia senza che ne fosse obbligato da una ordinanza di esilio (lo stesso può dirsi, del resto, per Umberto II)».
Il timore di Maria Gabriella di Savoia non è certo infondato, visto che il rimpatriato Bruno Dalmasso, ultimo custode italiano del cimitero di Hammangi (dove sono sepolti 7.800 caduti italiani), ha denunciato le profanazioni e le distruzioni delle lapidi dei seguaci dei tagliagole islamici, e ha affermato: «Portiamo in Italia quei resti. Gli estremisti islamici li hanno profanati due volte» (www.ilgiornale.it ).
Legittima e coraggiosa è la richiesta di Maria Gabriella, nonostante sia ben cosciente dell’ostracismo perdurante nei confronti di Casa Savoia. Un ostracismo innescato dalle sinistre (1943), che hanno incanalato gran parte dell’opinione pubblica verso l’odio non solo per Vittorio Emanuele III, ma anche nei confronti dell’istituto monarchico stesso, che è stato eliminato con i brogli elettorali manovrati da Palmiro Togliatti nel Referendum istituzionale del 1946 (due milioni di voti sottratti).
I consensi per la Monarchia, nell’Italia della seconda Guerra mondiale, sono rintracciabili non solo nella storiografia e nelle cronache, ma erano la preoccupazione costante di Adolf Hitler, che ordinò la cattura e la deportazione della figlia del Re, Mafalda di Savoia, che morì assassinata nel lager di Buchenwald il 28 agosto 1944.
Il giorno dopo l’appello di Maria Gabriella, il 17 luglio, è andato in onda su Rai 3, nel programma La grande storia, un servizio non certo atto alla sensibilizzazione per il rimpatrio delle salme dei sovrani d’Italia, ma dedicato all’esaltazione della socialista e liberale Maria José, nella quale la principessa belga poi «Regina di maggio» è risultata, come nella tradizionale vulgata progressista, l’eroina, a fronte di un Umberto II definito, negli anni del doloroso esilio a Cascais e a causa della sua cattolicità, «penoso» e «bigotto».
La Regina Elena trasmise ai figli Jolanda, Umberto, Giovanna, Mafalda, Maria una grande fede cristiana, che madre e figli hanno manifestato ampiamente nelle loro esistenze, alcune delle quali tanto tragiche quanto esemplari. Quattro ore dopo aver abdicato (9 maggio 1946), Vittorio Emanuele III era già a bordo del Duca degli Abruzzi, diretto verso l’Egitto. Re Farouk gli aveva offerto ospitalità nel suo palazzo di Qubbè Sarayi, al Cairo, ma Vittorio Emanuele, che prese a farsi chiamare conte di Pollenzo, scelse per sé e la moglie Elena un’anonima villetta a Shuma, sobborgo di Alessandria d’Egitto.
I Savoia non potevano (come sempre accade nelle rivoluzioni che smantellano le monarchie) accedere al patrimonio personale, che con la XIII Disposizione finale della Costituzione lo Stato avocò a sé, perciò Vittorio Emanuele partì povero, così come partirà il figlio per il Portogallo: sarà Re Farouk a sostenere il conte di Pollenzo e saranno gli italiani fedeli al Re a sostenere Umberto II, al quale il Venerabile Pio XII donò una somma di denaro per i primi duri tempi di Cascais.
Vittorio Emanuele che affrontò, nel bene e nel male, quattro guerre (due mondiali, quella di Libia e quella di Etiopia) e che regnò 46 anni, morì il 28 dicembre del 1947, il giorno seguente la promulgazione della Costituzione repubblicana. Nonostante l’offerta del sovrano d’Egitto di una sontuosa cappella nel cimitero latino, la Regina Elena, senza smentire la sua indole umile e riservata, scelse la piccola chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d’Egitto, dove la salma venne tumulata dietro l’altare maggiore, in un loculo dove è riportata la semplice scritta: «Vittorio Emanuele di Savoia 1869-1947».
Elena morì il 28 novembre del 1952 a Montpellier, in Francia, dove si era trasferita per sottoporsi alle cure mediche del professor Lamarque. Come era stata stimata e amata in Italia, la «bonne Dame noire» venne stimata e amata in Francia per il suo povero stile di vita e per la sua disarmante carità, sempre vigile sugli infelici: fu sepolta, come suo desiderio, in una comune tomba del cimitero cittadino. L’intera città si fermò per assistere e partecipare al suo funerale, al quale presero parte 50 mila francesi. I montpelliérains sono ancora oggi riconoscenti alla Regina Elena, morta in concetto di santità, e la sua tomba è sempre fiorita.
La vulgata innescata dal tribunale antimonarchico è stata impietosa nei confronti di Vittorio Emanuele III, del quale, nonostante alcuni gravi errori di valutazione, non si può, con onestà intellettuale, ricordare che fu contro l’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra mondiale, contro le leggi razziali (ma non poté che ratificarle, dopo 2 veti), contro la persona e l’agire di Hitler.
Per quanto riguarda l’8 Settembre 1943, il Re Soldato, formato alla ferrea disciplina del Generale Egidio Osio, preservò l’indipendenza italiana e la monarchia, trasferendo la sede del Governo a Brindisi: il termine «fuga», infatti, venne coniata dai nemici della corona, per screditarla. Non furono, infatti, fughe quelle del governo francese da Parigi a Bordeaux nel 1916, dei governi belgi, olandesi, norvegesi e polacchi nel 1939, bensì trasferimenti per non cadere incoscientemente nelle mani del nemico.
Molte cose avrebbe da dire (e in vita le disse) la Medaglia d’oro al Valor Militare Edgardo Sogno (1915-2000), anticomunista e coraggioso alfiere della monarchia, del quale proprio quest’anno ricorrono cento anni dalla sua nascita… ma «La grande storia» di Rai 3, sebbene gli furono decretati i funerali di Stato, si guarda bene dal celebrarne la memoria.
Riportare le salme dei Reali in Italia, oltre ad essere carità cristiana, di rispetto, di giustizia, sarebbe dovere civico e storico di una nazione che non ripudia se stessa e la sua «grande storia». (Cristina Siccardi)

da: www.corrispondenzaromana.it

giovedì 23 luglio 2015

L’identità sessuale colpita dall’ideologia di genere

di Domenico Bonvegna

Nel dicembre del 2010, il professore Mauro Ronco, professore ordinario di Diritto Penale presso l’università degli Studi di Padova, in un intervento organizzato dall’UGCI (Unione Giuristi Cattolici Italiani) a Palermo, partendo dal tema dell’identità sessuale e l’identità della persona,  ha spiegato egregiamente che cos’è l’ideologia di genere, il Gender, successivamente l’intervento del professore Ronco è stato pubblicato sulla rivista trimestrale, Cristianità (gennaio-marzo 2011 n.359).
Il professore inizia con un’affermazione paradossale: “l’ideologia postmoderna dei ‘diritti umani’ sta distruggendo la persona umana”. E’ una drammatica verità dei nostri tempi. Il fondamento di questi diritti sono stati creati nelle due Conferenze internazionali organizzati dall’ONU: quella del Cairo sulla Popolazione e lo Sviluppo del 1994e la IV Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, tenutasi a Pechino nel 1995. Nelle conferenze è stato definito che ogni atto libero del soggetto o che presta consenso, viene trasformato in “diritto umano”. Tra questi nuovi diritti scaturiti dalle due conferenza, c’è quello del “diritto alla salute riproduttiva” al Cairo, e il “diritto di genere”, che vuole sostituire la realtà della differenza sessuale fra l’uomo e la donna a Pechino.
Per il professore Ronco è importante interessarsi di questi pretesi “diritti”, perché sconvolgono il quadro tradizionale dei diritti umani e pongono in dubbio la stabilità etica e giuridica, nonché l’esistenza stessa della società. Infatti la tutela della vita e della persona, oggi secondo il Magistero della Chiesa sono minacciate da una cultura violenta che può essere benissimo definita cultura di morte. Per una sintetica ricostruzione storica di questi “nuovi diritti”, segnalo un interessante studio di Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia, Contro il Cristianesimo, Piemme (2005); le due giornaliste sostengono che i diritti umani sono stati trasformati in una nuova ideologia, addirittura in una religione laica, che va a sostituire le confessioni cristiane. Pertanto individuano una specie di deriva verso un “pensiero unico”, di credo totalitario e fondamentalmente nichilista, perché privo di chiari fondamenti teorici.
La “salute riproduttiva”: la Conferenza del Cairo del 1994.
Nell’intervento Mauro Ronco prima prende in esame la questione della “salute riproduttiva”, discussa nella Conferenza del Cairo nel 1994. Per Ronco c’è stato nella storia un odio contro la generazione umana, in particolare a partire dal secolo XIX. Per comprendere le decisioni prese nella Conferenza occorre vedere quali sono i presupposti storici e teorici. In particolare Ronco fa riferimento al modello del femminismo della prima metà del secolo XX°, alla figura carismatica di Margaret Sanger. Essa proponeva una separazione fra sessualità e procreazione, attraverso sistemi di controllo delle nascite. In pratica proponeva una sessualità senza implicazioni generative e soprattutto intendeva migliorare la razza. Pertanto per le donne “inidonee”, povere, deboli di mente, incapaci di utilizzare la contraccezione, proponeva la segregazione e la sterilizzazione. Dunque nell’opera della Sanger si intravede un incontro fra eugenismo e femminismo.
Ben presto il femminismo radicale supera l’istanza eugenistica della separazione fra sessualità e generatività per passare a quella individualistica ed edonista, sostanzialmente “assolutizzando nella sessualità la dimensione del piacere dilatando l’attitudine a usare il sesso come strumento per la soddisfazione carnale e psicologica”, superando le responsabilità generative. Per il professore Ronco, studiare la Singer è importante perché sì si può “spiegare il passaggio da un eugenismo scientista, a suo modo autoritario, a un eugenismo libertario, basato sulla libertà di scelta, come diritto assoluto della donna di liberarsi dalla schiavitù della riproduzione”. Infatti secondo il professore Ronco, “la donna, in quanto proprietaria del suo corpo e della sua sessualità, dovrebbe godere del piacere fornito dal corpo come un diritto assoluto. Ella non sarebbe libera se non nella misura in cui può decidere liberamente se essere madre o non esserlo: l’accesso alla contraccezione e l’aborto sarebbero diritti individuali strumentali alla realizzazione del suo diritto di scelta e di libertà”. Pertanto, continua Ronco,“dall’incontro fra diritto di scelta assoluto e il diritto alla salute è nato il post-moderno diritto fondamentale ‘alla salute riproduttiva’, che è stato definito nella Conferenza Internazionale del Cairo sulla Popolazione e sviluppo. Precisiamo che le risoluzioni della grande assise, presentate ai Governi e all’Onu, non sono mai state sottoposte al controllo democratico dei Parlamenti dei singoli Paesi.
In pratica al Cairo si cerca di realizzare il contenimento demografico, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, introducendo il concetto dei diritti riproduttivi dell’individuo, soggetti peraltro a continuo incremento, in funzione dell’estensione delle tecnologie artificiali riproduttive e antiriproduttive. In questo modo si arriva a
negare “il diritto alla vita del concepito, vuoi nell’utero vuoi in provetta; la separazione totale fra la sessualità, vista esclusivamente nel momento ludico e di soddisfazione fisio-psichica, e la fecondità”. Si arriva alla pretesa del diritto ad avere un figlio “sano”, “diritto”, che significa anche fare selezione prenatale. Praticamente per il professore Ronco, “il controllo tecnologico sulla vita è l’orizzonte finalistico della salute riproduttiva; il ‘diritto’ arbitrario di scelta individuale, alimentato dalla sensualità e dall’orgoglio, è lo strumento di cui lo scientismo si avvale per ottenere il controllo potestativo sulla vita umana, che si arroga il ‘diritto’ per giudicare quale vita meriti e quale non meriti di vivere”.
In sintesi il nuovo modello etico è legato alla libera scelta individuale, pertanto, l’interesse ad avere o non avere un figlio, fondano il diritto a ogni forma di contraccezione, anche abortiva, nonché alla sterilizzazione, all’aborto “sicuro”. Al centro sta sempre l’interesse alla salute, intesa come condizione di pieno benessere fisico e psicologico della donna, tutto questo comportasecondo il professore Ronco, “il “diritto” all’aborto; l’interesse ad avere un figlio, come e quando si vuole e con chi si vuole, fonda il “diritto” alla riproduzione artificiale; infine, l’interesse individuale ad avere un figlio sano e l’interesse sociale a evitare i costi per la cura dei soggetti fisicamente e psichicamente inadeguati fondano il “diritto” alla selezione prenatale, nonchè la distruzione degli embrioni dotati di qualità inferiori”.
Il “diritto di genere”: la Conferenza di Pechino del 1995.
La conferenza di Pechino ha compiuto un ulteriore passo nella stessa direzione di quella del Cairo. Fondando il concetto di “genere”, come pilastro normativo, politico, sociale ed economico, del nuovo ordine mondiale. In pratica è a Pechino che queste lobby mondiali, agenzie dell’Onu, hanno elaborato una Piattaforma di Azione, contenente l’invito ai governi a “diffondere l’Agenda di Genere”in ogni programma politico e in ogni istituzione sia pubblica che privata.“Oggi siamo sotto gli effetti ricollegabili all’attuazione dell’”Agenda di Genere”, dettata a Pechino nel 1995. Scrive Ronco. E’ una agenda che non è mai stata sottoposta all’esame del Parlamento, ed è quasi sconosciuta ai vari popoli del mondo, ignari della subdola strategia dei promotori.
Monsignor Schooyans, membro onorario della Pontificia Accademia Pro Vita, ha descritto con lucidità, già nel 1997, “la coalizione ideologica del gender, ovvero il complesso delle istanze filosofiche e culturali che, in un’ottica di ostilità alla vita...”. In questa ideologia Schooyans intravede frammenti di socialismo e di liberalismo, volti a ‘giustificare’ la decostruzione dei fondamenti della vita sociale nel disprezzo della vita umana”.

Per il momento mi fermo al prossimo intervento.

Slittamento scadenza partecipazione Premio Himera

L’Associazione culturale Termini d’Arte,organizzatrice della Terza Edizione del Premio Nazionale di Poesia “ Himera”,con una sezione speciale sul sito archeologico (Edizione 2015), con il patrocinio del Comune di Termini Imerese e del Parco Archeologico di Himera
comunica ai poeti contemporanei che scrivono in Lingua Italiana e/o in Vernacolo, ai letterati, ai cultori, agli studiosi e agli studenti che abbiano prodotto Opere (edite ed inedite) di tipo letterario, storico, archeologico e numismatico,(incluse tesi di laurea,ricerche e documentari), su Himera e sul suo Sito Archeologico, di avere spostato l’ultima data di consegna degli elaborati inerenti le Sezioni A, B e C del bando di concorso, al 31 agosto prossimo.
Il tutto per permettere, a coloro che non avessero già inviato le loro opere, di avere un tempo più disteso per la presentazione degli elaborati e pe rfavorire una maggiore adesione al concorso anche a studenti e professori che nel mese di luglio sono ancora impegnati con le attività universitarie o di fine scuola e in esami di vario tipo.
Il bando è reperibile su www.concorsiletterari.it, sul sito del Comune di Termini Imerese, www.comuneterminiimerese.pa.it e su www.facebook.it

Epigrafi sull'Oreto - Sezione parenti di Vittorio Riera

Pubblichiamo la seconda parte delle Epigrafi sull'Oreto - Sezione parenti di Vittorio Riera

Clicca qui per leggere

Riconoscere Dio al centro del creato


lunedì 20 luglio 2015

(S)connessione di Vittorio Riera

(S)CONNESSIONE
Pubblichiamo le quattro parti di un testo di grande suggestione creativa dello scrittore Vittorio Riera che proponiamo con partecipe attenzione per i nostri lettori 

venerdì 17 luglio 2015

Inaugurazione nuova sede a villa Cutò dell'associazione G. Bagnera


Giacomo Biffi: pensieri liberi di un grande uomo di chiesa

di Giuseppe Rusconi

La morte dell’ottantasettenne cardinale-arcivescovo emerito di Bologna (milanese di nascita e di spirito), avvenuta l’11 luglio alle 2.30, ci ha spinto a ritrovare una parte della sua numerosa pubblicistica, di forte stimolo per il cristiano (e non solo) che voglia vivere la propria testimonianza nelle difficili contingenze attuali. Per ricordarlo secondo verità non c’è modo migliore che riproporre alcuni (pochi) passi dei suoi scritti, attuali come non mai.
Letture e attenzioni (da ‘Annotazione previa’ in “Pinocchio, Peppone e l’Anticristo e altre divagazioni”, ed. Cantagalli, Siena, 2012): Le mie attenzioni e le mie letture hanno spesso sconfinato dai ‘sacri recinti’. Non mi sono mai limitato a occuparmi soltanto di teologia e di pastorale, di opere patristiche e di documenti conciliari. Tuttavia le divagazioni (…) a dire il vero sconfinavano sì dall’ambito rigorosamente ecclesiastico, ma non da quello della vita evangelica e della contemplazione della verità che salva: Collodi, Guareschi, Solovev, Chesterton, Bacchelli, Tolkien – tutti ‘laici’ nel senso migliore e più autentico del termine – mi hanno fatto davvero crescere nella ‘intelligenza della fede’. Anche la conoscenza un po’ ravvicinata – al di là dei luoghi comuni e dei giudizi ‘politicamente corretti’ – di avvenimenti apparentemente ‘mondani’, come la Rivoluzione francese e il Risorgimento, mi hanno aiutato ad aderire con maggiore consapevolezza al disegno provvidenziale del Padre e alla signoria di Cristo., Re dell’universo, della storia e dei cuori.
La Volpe e il Gatto (ibidem, “Carlo Collodi ovvero Il ‘mistero’ di “Pinocchio”, saggio del 2002 rivisto e rielaborato): (In ‘Pinocchio) ci sono anche i ‘cattivi’ tra quanti ci capita di incontrare. Collodi su questo non ha alcun dubbio. La sua fantasia li rappresenta quasi esemplarmente nelle pittoresche figuire della Volpe e del Gatto; figure indimenticabili e artisticamente attraenti, ma descritte in una malvagità che non ha attenuanti, e perciò come immeritevoli di ogni pietà.
“Abbi compassione di noi!”, dicono alla loro antica vittima nell’ultima apparizione, quando sono ormai ridotti all’estrema indigenza; ma a Pinocchio viene messa in bocca ripetutamente una risposta irridente: “Addio, mascherine!”. L’autore li inchioda dunque alle loro responsabilità personali; non ricerca spiegazioni al loro deplorevole comportamento nella struttura ingiusta della società o in qualche trauma infantile o in qualche alterazione psichica.
Tra i ‘cattivi’ la Volpe e il Gatto però non sono i peggiori. Non intendono corrompere e indurre al male; mirano piuttosto a ingannare gli innocenti a proprio vantaggio, cercando di cavare profitto dalla loro semplicità: essi sanno che la ‘dabbenaggine’ è spesso la caratteristica delle ‘persone dabbene’.
L’Omino mellifluo (ibidem): Il Gatto e la Volpe sembrano impersonare una cattiveria che non eccede la nostra realtà naturale. (…) Ma il Collodi, con sorprendente vigore speculativo, si eleva fino a mettere in campo una forza perversa trascendente, quasi una potenza assoluta di male, che non attenta più soltanto alle ‘cose’ dell’uomo, bensì all’uomo stesso, derubandolo addirittura della sua stessa identità, aliena dolo e snaturandolo fino a fargli perdere la sua dignità originaria.
Questa forza perversa trascendente è raffigurata dall’Omino che trascina i ragazzi al Paese dei balocchi: egli è magistralmente delineato come un alacre e sempre desto ministro del male e come un persuasore convincente dalla “voce carezzevole, come quella di un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa”. IN realtà, egli si rivela alla fine un tiranno crudele e uno sfruttatore implacabile dei malcapitati che riesce a raggiungere e ad acquisire. (…) (L’Omino) assume connotati inattesi: non ostenta niente di repellente e di spaventoso; al contrario è tutto rivestito di bontà e di dolcezza. Non si propone di incutere terrore, ma di lusingare e di sedurre. (…) Oseremmo pensare che in tutta la cristianità, tra le varie raffigurazioni artistiche e letterarie del nemico dell’uomo che sono state immaginate, non ce n’è una più originale, più alta e più vera di questa.
Don Camillo e Peppone: il sì sì, no no (ibidem, “Giovanni Guareschi ovvero la teologia di Peppone”, commento del 1999, rielaborato, a due racconti di Guareschi): (Nell’ “Anonima”) viene affrontato esplicitamente il problema – serio e rilevante per Guareschi – del rapporto tra il servizio alla verità e la tirannia delle esigenze letterarie. Peppone l’avverte come qualcosa di intrigante e addirittura di angoscioso. “la letteratura – egli dice – è una porca faccenda che serve soltanto a imbrogliare le idee, perché va a finire che uno, invece di dire quello che vorrebbe lui, dice quello che vuole la grammatica e l’analisi logica”. “Adesso parli giusto”, gli osservò don Camillo (che qui è senza dubbio portavoce dell’autore). “Ha bisogno di molte parole – gli dice ancora – chi deve mascherare la sua mancanza di idee o chi deve mascherare le sue intenzioni”.
Viene allora a proposito l’idea di Peppone, che è di cancellare dal vocabolario tutte le parole che sono in più: ce ne sono troppe rispetto al numero delle cose da dire. Al momento egli non ci pensa, ma in fondo il suo è lo stesso parere di Gesù Cristo che ha detto: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”.
Bisogna riconoscere che dal tempo di Guareschi (NdR: Anni Cinquanta del Novecento) nell’uso del linguaggio c’è stato perfino un peggioramento. Sicché oggi l’inizio obbligato della nostra redenzione sociale sarebbe quello di cominciare a chiamare le cose soltanto con il loro nome, senza camuffamenti verbali e senza quelle inutili prolissità che spesso finiscono coll’essere messe a servizio dell’ambiguità e della confusione.
E’ per esempio strano (ma non tanto) che la famosa legge 194 – con la quale si è legalizzato e pubblicamente finanziato l’aborto – si intitoli con bella sfacciataggine legge per la tutela della maternità. O che ci si dimentichi che per indicare la convivenza more uxorio di due persone non sposate, la lingua italiana abbia già la parola univoca e pertinente che è il ‘concubinato’, senza che ci sia bisogno di perifrasi imprecise e un po’ alienanti come ‘unioni di fatto’ o ‘unioni affettive’.
Don Camillo e Peppone: il dialogo (ibidem): Quelli di Guareschi sono senza dubbio personaggi ‘preconciliari’; ma nessuno potrebbe affermare che non ci sia dialogo tra don Camillo e Peppone. Il dialogo è anzi la sostanza stessa della loro leggendaria vicenda. Ogni giorno essi si incontrano, si confrontano, misurano con straordinaria libertà le loro rispettive convinzioni.
Ma don Camillo (…) non si sogna neppure di pensare che per dialogare efficacemente dobbiamo, come oggi si sente dire, “guardare a ciò che ci unisce e non a quello che ci divide”. (…) Egli sembra sicuro (e Peppone con lui) che sia vero il contrario, almeno quando ciò che ci differenzia e ci contrappone non è motivato e connotato dal capriccio e dal puntiglio, ma dall’amore per la verità e la giustizia. (…) Appunto per questo bisogna anche dire che il dialogo per come è tratteggiato da Guareschi appare evangelicamente giusto e fruttuoso. La salvezza dei fratelli non verrà dalla capacità degli uomini di Chiesa di schivare con mondana eleganza ciò che può inquietare e pungere una pace delle coscienze obiettivamente infondata e non generata dalla verità; potrà venire solo da una limpida e coraggiosa testimonianza resa, per amore del prossimo, alla luce salvifica di Dio.
Valori assoluti e valori relativi (ibidem, “Vladimir Sergeevic Solovev ovvero La profezia dell’Anticristo”, saggio del 1991 arricchito e rielaborato): Ci sono dei valori assoluto (o, come dicono i filosofi, trascendentali): tali sono, ad esempio, il vero, il bene, il bello. Chi li percepisce e li onora e li ama, percepisce, onora, ama Gesù Cristo, anche se non lo sa e magari si crede anche ateo, perché nell’essere profondo delle cose Cristo è la verità, la giustizia, la bellezza.
Ci sono valori relativi (o categoriali), come il culto della solidarietà, l’amore per la pace, il rispetto per la natura, l’atteggiamento di dialogo, ecc… Questi meritano un giudizio più articolato, che preservi la riflessione da ogni ambiguità. Solidarietà, pace, natura, dialogo possono diventare nel non cristiano le occasioni concrete di un approccio iniziale e informale a Cristo e al suo mistero. Ma se nella sua attenzione essi si assolutizzano fino a svellersi del tutto dalla loro oggettiva radice o, peggio, fino a contrapporsi al’annuncio del fatto salvifico, allora diventano istigazioni all’idolatria e ostacoli sulla via della salvezza.
Se il cristiano, per amore di apertura al mondo e di buon vicinato con tutti, quasi senza avvedersene stempera sostanzialmente il fatto salvifico nella esaltazione e nel conseguimento di questi traguardi secondari, allora egli si preclude la connessione personale con Figlio di Dio crocifisso e risorto, consuma a poco a poco il peccato di apostasia, si ritrova alla fine dalla parte dell’Anticristo.

da:"www.rossoporpora.org

Preparatevi, così ci imporranno anche la pedofilia

di Tommaso Scandroglio




Qualche mese fa il New York Times ha pubblicato un articolo di Margo Kaplan, docente alla Rutgers School of Law di Camden. Il titolo è ad effetto: “Pedofilia: un disturbo e non un crimine”. Ora andremo a scorrere le argomentazioni offerte nell’articolo per constatare come la Kaplan riesca sottilmente a legittimare la pedofilia. Sono gli stessi passi che, anni addietro, vennero compiuti per legittimare l’omosessualità. 
Un primo passo per rendere accettabile una condotta o una condizione è affermare che non è poi così rara. Scrive la Kaplan: «Secondo alcune stime, l'1 per cento della popolazione maschile continua, molto tempo dopo la pubertà, a sentirsi attratto da bambini in età prepuberale». Direte voi: l’1% è cifra irrisoria. Non è tanto vero. In una qualsiasi giornata voi incontrate per strada, nei luoghi pubblici sicuramente più di 100 maschi. Ecco la docente della Rutgers ci sta dicendo che ogni giorno voi incontrate senza saperlo almeno un pedofilo, se non di più. Posta così la questione quell’1% inizia ad essere un po’ più ingombrante nella nostra percezione del fenomeno. Poco importa poi che il dato sia attendibile o meno, l’importante è far comprendere che la pedofilia è una realtà sociale, un fenomeno che esiste ed esiste accanto a noi. Inoltre, quell’1% ricorda tanto l’1% di persone omosessuali presenti nella popolazione mondiale. Anche loro una minoranza, ma che oggi pesa moltissimo.
Poi la Kaplan cerca di rischiarare la condizione del pedofilo quando ricorda che secondo il ManualeDiagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali la pedofilia è un disturbo se «provoca un disagio o difficoltà interpersonali». Affermazione volutamente obliqua. Si domanderà il lettore: se il pedofilo è felice di essere tale allora non è più un disturbo la pedofilia? Se il bambino, a motivo proprio della sua immaturità, è falsamente consenziente e quindi non ci sono particolari «difficoltà interpersonali» la pedofilia è condizione non più patologica? Domande che la Kaplan volutamente lascia in sospeso, come una spada di Damocle sulle teste dei bambini. Proseguiamo con un altro sottile e pericoloso distinguo che fa l’autrice dell’articolo: «la pedofilia è uno stato e non un atto. […] Circa la metà di tutti i pedofili non sono sessualmente attratti da loro vittime». In filigrana la Kaplan ci sta dicendo che fin tanto che il pedofilo non tocca un bambino, la pedofilia potrebbe essere anche accettata. Infatti, metà dei pedofili non sono nemmeno attratti sessualmente dai bambini (e allora non sono pedofili) e dunque perché temerli? Perché ghettizzarli? 
Infatti, più avanti l’articolo così chiosa: «Un pedofilo deve essere ritenuto responsabile per il suocomportamento, non per l'attrazione sottostante». Ad onor del vero qui la professoressa Kaplan sta parlando delle sanzioni penali – e su questo le diamo ragione – ma non specificare che anche la stessa condizione non è sana dal punto di vista clinico e intrinsecamente disordinata dal punto di vista morale potrebbe far ritenere al lettore che tutto sommato, finché non c’è abuso, la pedofilia potrebbe essere anche accettata.
Questa argomentazione appena illustrata offre la sponda ad una successiva: «Un secondo malinteso è che la pedofilia è una scelta. Recenti ricerche […] suggeriscono che il disturbo può avere origini neurologiche». Affermare che la pedofilia non è una scelta, ma una condizione è la stessa motivazione spesa per legittimare l’omosessualità. In sintesi: se sei nato così oppure se è la conformazione del tuo cervello che ti porta a compiere atti pedofili tu non sei responsabile dei tuoi atti. É il tuo Dna o le tue sinapsi che ti costringono ad abusare sui bambini, attraverso una coazione di carattere ormonale e psichico invincibile. Ergo tu non sei colpevole di eventuali abusi. Il determinismo empirista predica in buona sostanza la morte della libertà e quindi della responsabilità morale e penale. Il passaggio per dire che la pedofilia è condizione naturale – proprio perché inscritta nel Dna e nel cervello – è dietro l’angolo. 
Poi, ecco un altro tassello per legittimare la pedofilia, lo stesso usato dalle lobby gay per tutelarel’omosessualità: la discriminazione ingiusta che patirebbero i pedofili. La Kaplan racconta di persone che sentono l’impulso di molestare un bambino, ma si trattengono. Costoro «devono nascondere il loro disturbo a tutti», spiega la Kaplan, «altrimenti rischiano di perdere opportunità di lavoro e di formazione […]. Molti si sentono isolati, alcuni pensano al suicidio. Lo psicologo Jesse Bering, autore di Perv.: la devianza sessuale in tutti noi, scrive che le persone affette da pedofilia “non vivono la loro vita nell'armadio; stanno eternamente accovacciati in una panic room”». Poi l’autrice, che si premura nel dire che comunque un pedofilo non dovrebbe mai fare il maestro alle elementari, prosegue citando due leggi statunitensi le quali «vietano la discriminazione contro individui affetti da disabilità mentali, in settori quali l'occupazione, l'istruzione e le cure mediche. Il Congresso, tuttavia, ha escluso esplicitamente la pedofilia dalla protezione di queste due leggi fondamentali. È il momento di rivedere queste esclusioni». 
Il pedofilo come soggetto discriminato dalle persone e dalle leggi. Il solito e pericolosissimo cliché che la Kaplan giustifica sostenendo che se non aiutiamo i pedofili a venire allo scoperto sarà impossibile curarli. Quando la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. In sintesi l’autrice ha messo in campo le seguenti argomentazioni per normalizzare la pedofilia: essa è un fenomeno sociale non così marginale e come tale dobbiamo farci i conti; è un disturbo solo se provoca disagio al soggetto o a terzi, non di per se stessa; la pedofilia va impedita solo se sfocia in condotte conseguenti; non è colpa del pedofilo se abusa dei bambini perché è madre natura che lo ha fatto così; i pedofili vivono una vita da ghettizzati, non discriminiamoli. Un film dell’orrore già visto.

da:"la nuovabq.it

Il Fattore “R”. Conflitti religiosi, Religioni civili, Scenari geopolitici.

XX Corso
Sala della Fondazione Cassa di Risparmio, Via Piana 1
San Marino Città – Repubblica di San Marino 24-25 luglio 2015

Nello scenario di una globalizzazione oramai sviluppatasi pienamente, la costante esplosione di conflitti a forte base (quantomeno apparente) religiosa e le tensioni etniche che si collegano e rinforzano a partire da tensioni tra religioni - o tra comunità religiose ed apparati repressivi di Stati a-religiosi - compongono un mosaico che di per sé smentisce le previsioni di chi, ad Oriente come ad Occidente, fino a pochi decenni fa profetizzava una ineluttabile “fine del religioso” ed una dilagante laicizzazione, consustanziale alla diffusione nel mondo della filosofia di vita “laica” ed “occidentale”. Nel contempo, anche all’interno del medesimo “occidente” si assiste da un lato alla rinascita di esperienze religiose di massa, non sempre collegate alle religioni tradizionali, e simmetricamente nella diffusione di “religioni civili” che si atteggiano nei confronti delle tradizioni religiose storicamente egemoni in maniera sovente fortemente dialettica, facendo intravedere non di rado il profilo di rinnovate tensioni fra Stati e Chiesa. Infine, mentre il Dialogo fra le grandi religioni è comunemente invocato da tutti coloro che intendono prevenire “scontri di civiltà”, crescono i dubbi relativi alla capacità reale delle comunità religiose di incidere sui processi geopolitici in atto, lasciando senza risposte gli appelli di importanti Autorità spirituali a livello planetario.
Uno scenario complesso e stimolante: per i Piccoli Stati che, come San Marino, camminano verso l’UE, questa prospettiva rappresenta una sfida aperta da affrontare nel solco della propria antica tradizione di apertura e dialogo interculturale e interreligioso.
24 Luglio 2015 ore 15.30
Apertura dei Lavori - Saluti Istituzionali.
S.E. Mons. Andrea Turazzi, Vescovo della Diocesi di San Marino-Montefeltro
On. Pasquale Valentini, Segretario di Stato per gli Affari Esteri, Rep. di San Marino.
Prof. Adolfo Morganti, Vice-Presidente della Fondazione Paneuropea Sammarinese 
I Sessione
Ore 16,30
Funzione e nodi del dialogo interreligioso in Europa oggi
Prof. Mislav Jezic, (Storico delle Religioni, Zagabria)
Moderatore: dott. Stefano Manganaro, Istituto italiano per gli Studi storici, Napoli IISS
Discussione.
II Sessione
25 Luglio ore 9.30
Nuovi idoli, nuove religioni: mercato globale e laicismo di Stato
Prof. Francesco Anghelone, Responsabile Area ricerca Politico-Storica, Università S. Pio V, Roma: “KKE e Syriza: la sinistra greca e la crisi.”
Prof. Alessandro Voglino, Università La Sapienza, Roma: “Fra poteri apolidi e denaro virtuale”.
Moderatore: dott. Marcello Ciola, Identità Europea
Discussione.
III Sessione
25 Luglio ore 15.00
L’Europa e l’Islam: rappresentazioni e sfide
                                            Prof. Franco Cardini,  Presidente Fondazione Paneuropea Sammarinese, Università di San Marino: “Il feticcio del Califfato e le ipocrisie dell'Occidente.”
                                                Dott. Robert Attarian, Portavoce del Consiglio della Comunità Armena di Roma: Gli Armeni ed i Cristiani d’oriente oggi. A cent’anni dal genocidio.”
Moderatore: Carlo Romeo, Direttore di San Marino RTV


martedì 14 luglio 2015

Buon Festino


Mussolini inedito (1942) sapeva della fine imminente

di Aldo A. Mola

Dalla congerie di diari, quaderni e appunti di Mussolini (contraffatti, bruciati, finiti chissà come o dove) Fabio Andriola, direttore di “Storia in Rete” e mussolinologo di talento, fa emergere il “Diario” del 1942, forse autentico (la prudenza è d'obbligo, com'egli stesso osserva) messogli a disposizione da un collezionista disinteressato (erba rara in un mondo avido e pettegolo). Lo scoop è stato salutato da una manciata di recensioni e interviste su fogli amici e dal compatto silenzio delle “vestali della memoria”, come Gianpaolo Pansa ha bollato i custodi del politicamente corretto.
Cosa non piace della scoperta di Andriola? Tutto, a partire dall'Autore, che non è un accademico in caccia di prebende ma uno studioso in cerca di verità. Non solo. Il Mussolini affiorante dal Diario non è un “nazifascista”, cui contrapporre la stucchevole Resistenza perfetta di Giovanni De Luna: egli, piuttosto, annota dubbi sui gerarchi (in primis il genero, Galeazzo Ciano) e fastidio per Rommel, Göring, Ribbentrop e per Hitler, logorroico allucinato. Il Duce non pare nemmeno “fascista”, se per fascismo s'intende una dottrina statica: nell'anno del Ventennale perduto e dell'Eur da inaugurare, egli rimaneva “l'uomo in cerca” di cui scrisse Renzo De Felice, dalla formazione carducciano-socialista-libertaria, impastata di sentimenti e corriva ai sentimentalismi.
Ma perché Mussolini tenne un diario? “Scrivo queste poche note semplici e insignificanti che qualcuno un giorno leggerà con stupore e forse con noia” (27 gennaio 1942). Chiuse l'anno con una previsione azzeccata: “Ora sotto di me si è aperto il precipizio”. Sette mesi dopo, le forzate dimissioni, poi la RSI, la guerra civile, l'esecuzione sommaria (tuttora avvolta nel mistero) con l'epilogo della “macelleria messicana” di Piazzale Loreto deplorata da Ferruccio Parri ma allestita per cancellare frettolosamente vent'anni di storia d'Italia che l'agenda del 1942 concorre a riscrivere, senza conformismo e paura della verità.


Da: l’Editoriale del “Giornale del Piemonte”, 12 luglio 2015

Amori e scherzi nella Sicilia di un tempo: Alfio Patti a San Gregorio

SABATO 18 LUGLIO ALLE ORE 21, ARENA “CARLO ALBERTO DALLA CHIESA”, VIA CARLO ALBERTO 6, SAN GREGORIO DI CATANIA, spettacolo di Alfio Patti dal titolo “L’’Amore e lo scherzo nella Sicilia di un tempo”.
Lo spettacolo, che avrà la durata di un’ora e mezzo è stato promosso dall’Amministrazione comunale di San Gregorio, assessorato alla Cultura, ed inserito nella programmazione dell’Estate sangregorese 2015.
“O è troppu funnu ‘u puzzu o è troppu curtu ‘u lazzu” (O è troppo profondo il pozzo o è troppo corto il laccio”. Così si diceva ironicamente un tempo quando in una coppia non venivano subito figli. Ed è su questa falsa riga, ironico-giocosa, impostata su “miniminagghi” e gabbi miscelati a canzoni altrettanto ironiche ma anche romantiche che si snoda il suo intimo spettacolo “Amore e scherzo nella Sicilia di un tempo”.
“Il popolo siciliano è stato sempre molto riguardoso verso le donne – dice Alfio Patti nell’illustrare la sua opera – ma tutti gli indovinelli, i cosiddetti Miniminagghi, erano a doppio senso ma solo nella formulazione. In realtà si trattava di cose semplici ed oneste”.
Anche l’amore viene trattato in chiave ironico-sentimentale e non poteva mancare una puntatina sulla “jarrusanza” femminile, senza la quale il corteggiamento “tappinàro” non avrebbe potuto compiersi.
Stando sul palco per un’ora e mezza, Patti non stanca il pubblico. Anzi. E’ vero: “Le cose di ogni giorno raccontano segreti a chi le sa guardare… ascoltare” (Sergio Endrigo – Ci vuole un fiore).

Carmelo Di Mauro
(da: “Alfio Patti, il cantastorie dei Miniminagghi” – La Sicilia 1° marzo 2015)

domenica 12 luglio 2015

Tam-Tam mediatico per misericordia

di Julio Loredo

Una delle parole più usate a proposito dell’ultimo Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, tenutosi lo scorso ottobre in Vaticano, sia nei Documenti sia nelle discussioni, è “misericordia”. Si direbbe, infatti, che tutto il Sinodo si sia svolto all’insegna della misericordia, quale criterio cardine per la pastorale della Chiesa nei decenni a venire. Ma, soprattutto, i mass media hanno cercato di creare l’impressione di una ventura “Chiesa della misericordia” in opposizione alla Chiesa finora esistente. Nel documento conclusivo, «Relatio Synodi», la parola è usata ben sedici volte. Il cardinale Walter Kasper, relatore del Sinodo, aveva già pubblicato un libro in merito: «Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo. Chiave della vita cristiana», che ha molto ispirato il dibattito.
La versione che si cerca di trasmettere è che la pastorale della Chiesa non può essere fondata appena sulla dottrina, cioè sulla giusta applicazione dei principi della Morale e del Magistero, ma anche sulla misericordia, che, andando oltre la dottrina, valuta con occhi benevoli certe situazioni concrete. Fin qui niente di nuovo. Nella fattispecie, però, alcuni vorrebbero applicare la misericordia alle persone in situazione coniugale irregolare: divorziati risposati, conviventi, coppie di fatto (anche omosessuali), senza far loro rinunciare alla propria condizione di peccato. Tutto ciò costituirebbe già una novità pericolosa, in quanto escluderebbe il necessario pentimento e il proposito di emendamento.
Si è giunti, in alcuni casi, a proporre, addirittura, di riammettere tali persone alla Comunione sacramentale, come pure di aprire alle coppie formate da persone dello stesso sesso. Nelle discussioni, si è arrivato a prospettare sostanziali cambiamenti nel Magistero e nella disciplina della Chiesa in materia morale, pur di venir incontro, in modo misericordioso, a queste persone.
Nel «Documento Preparatorio» al Sinodo, posto il quesito “Come viene annunciata a separati e divorziati risposati la misericordia di Dio?”, è stata messa in evidenza “la vasta accoglienza che sta avendo ai nostri giorni l’insegnamento sulla misericordia divina e sulla tenerezza nei confronti delle persone ferite, nelle periferie geografiche ed esistenziali”.
LE "PAROLE
TALISMANO" 
“Misericordia”, “tenerezza”, “persone ferite”… parole ad altissimo contenuto sentimentale, il cui significato, di per sé legittimo, diventa sempre più sfuggente man mano che sono manipolate con sfumature diverse da una certa propaganda. Queste sono le parole che oggi vanno di moda, e che confermano che ci troviamo ad avere a che fare con una collaudata strategia rivoluzionaria.
Infatti, siamo di fronte a ciò che Plinio Corrêa de Oliveira definiva “parole talismano”: vocaboli con forte contenuto sentimentale, che suscitano una costellazione di impressioni ed emozioni, dotate di grandi qualità propagandistiche, della cui elasticità si abusa per scopi ideologici, suscettibili di essere fortemente radicalizzati al fine di realizzare ciò che il pensatore cattolico indicava come “trasbordo ideologico inavvertito”, cioè un cambiamento nella mentalità del “paziente” senza che questi se ne accorga (1).
Le “parole talismano” sono simili a recipienti nei quali si possono versare diversi contenuti. Ammettendo un significato legittimo, perfino nobile, le “parole talismano” sono manipolate tendenziosamente dalla propaganda, assumendo quindi significati sempre più vicini alle posizioni ideologiche verso le quali si vuole trasbordare l’opinione pubblica. In questo modo, le “parole talismano” diventano strumenti della rivoluzione. Si tratta di una tecnica di persuasione ideologica implicita.
Facciamo un esempio concreto: “persone ferite”. Si tratta, in questo caso, di persone che vivono in stato di peccato mortale pubblico: divorziati risposati, conviventi, coppie omosessuali. Il termine appropriato sarebbe quindi “peccatori pubblici”. Questo, però, dicono i paladini della misericordia, non fa altro che aumentare il loro dolore, cosa contraria all’amore. Chiamandole invece “persone ferite” si evita di arrecare loro ulteriore danno, ripudiandole con un giudizio morale negativo, e si esalta invece un aspetto, vero ma secondario, della loro personale condizione, usando nei loro confronti un termine atto a suscitare compassione: sono “persone ferite”…
Così come il dolore fisico è una difesa dell’organismo per richiamare l’attenzione su una situazione patologica, che altrimenti andrebbe trascurata, il dolore spirituale è una difesa della coscienza a una situazione di peccato. È dal dolore che nasce il pentimento. Dominata da un sentimentalismo morboso, che varca i confini della ragionevolezza, una certa mentalità pensa invece solo a sollevare il dolore, non affrontando alla radice il problema, bensì offrendo palliativi.
La reazione normale di fronte a una “persona ferita” è, ovviamente, venirle incontro per sollevarla da ogni sofferenza. Per chi possiede questa mentalità, mentre ogni giudizio teologico e morale è sconsigliato, anzi evitato, al fine di non aggravare ulteriormente le sofferenze di tali persone, il sentimento di “tenerezza” e di “misericordia” nei loro confronti va dilatato fino a diventare il criterio dominante nell’analizzare la situazione e, quindi, anche nel tracciare una condotta pastorale.
Nell’auge della manipolazione del sentimento di misericordia, a qualcuno può venire in mente di “far evolvere” il Magistero della Chiesa e la sua disciplina pur di non “ferire” più queste persone.
LA VERA
MISERICORDIA
Teologicamente, la misericordia è una virtù che incide sulla nostra capacità di avere compassione, cioè di “patire con” il nostro prossimo, venendo incontro a eventuali situazioni di sofferenza al fine di sollevarlo dalle sue miserie. L’oggetto della misericordia è la sofferenza che si discerne nel prossimo, soprattutto quando essa è involontaria. La misericordia è intimamente collegata alla giustizia perché, al pari di essa, controlla i rapporti fra le persone.
"Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio..." (Gv. 2, 15)
Secondo il sacerdote spagnolo Juan José Pérez-Soba, del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, “quello che differenzia la misericordia dalla sola compassione, è che lo scopo della misericordia è di ‘rimuovere l’altrui miseria’, in altri termini, la misericordia è attiva contro il male che l’altro subisce. Non è misericordia la falsa consolazione che porta a dire che si tratta di un male minore, se non si libera da esso colui che lo subisce. La misericordia nasce dall’amore per la persona al fine di curarla dal male dell’infedeltà che l’affligge e che la impedisce di vivere nell’Alleanza con Dio” (2).
Tale misericordia va necessariamente collegata alla giustizia e alla verità: “La misericordia in quanto virtù non è estranea alla giustizia. (…) Non possiamo lasciare spazio ad una misericordia ingiusta poiché sarebbe una profonda falsificazione della rivelazione divina. (…) La verità è il nesso che unisce la misericordia e la giustizia. (…) Un’azione ingiusta, quindi, non è mai misericordiosa”.
TRASBORDO
IDEOLOGICO
Molto diversa è la “misericordia” talismano, strumento del trasbordo ideologico inavvertito. Cercheremo di descrivere, passo per passo, tale trasbordo, seguendo lo schema di Plinio Corrêa de Oliveira.
Prima fase: ipertrofia della compassione. La manipolazione inizia con l’ipertrofia della compassione. Insistiamo sull’importanza del fattore emotivo e sentimentale. Si nota una forte fermentazione passionale irenistica [pacifista], che consiste in un vigoroso desiderio di concordia e di bene universale, di pace in tutti i campi delle relazioni umane, senza esclusione di nessuno, poiché ogni esclusione fa soffrire. Tale desiderio sarà soddisfatto solo quando non ci sarà più sofferenza nel mondo.
Si ammette ancora una verità oggettiva, cioè principi morali che sono ancora affermati e, talvolta, anche difesi. Se dal punto di vista dottrinale, si affermano ancora i principi, dal punto di vista emotivo si è introdotto un fattore passionale che, esacerbato, porterà a relativizzare la dottrina. La parola “misericordia” subisce allora la sua prima trasformazione: slegandosi gradualmente dalla verità e dalla giustizia, assume una vita propria.
Seconda fase: la compassione invade la discussione a scapito dei principi. A partire da un dato momento, la compassione irenistica comincia a prendere il primo posto nella discussione, a scapito dello zelo per la difesa dei principi e del Magistero. Ne deriva un mutamento nel modo di portare avanti la discussione: non più per affermare la verità e la giustizia, approfondendo il Magistero, ma per risolvere ad ogni costo le situazioni di sofferenza. Nel caso in questione, dicono, queste persone si sono allontanate dalla Chiesa solo perché essa le ha finora trattate in modo duro. Basterebbe usare tenerezza e misericordia che esse tornerebbero alla Casa paterna.
La parola talismano “misericordia” acquisisce un significato nuovo e più ampio: non si tratta solo di venir incontro alle “persone ferite”, ma di farlo a qualsiasi costo. Qualsiasi indugio sarà contrario alla carità. Si comincia a perdere di vista il fine della pastorale, cioè il bene spirituale delle persone, e si cerca invece, sempre di più, di lenire le loro sofferenze. Il criterio della pastorale si sposta dalla Verità insegnata dal Magistero, alla percezione che queste persone hanno della propria situazione.
Terza fase: la compassione sfocia nel relativismo. Fin qui, sotto la pressione emotiva, l’obiettivo della discussione diventa sempre più la compassione a qualsiasi costo e sempre meno la Verità. Nella terza fase, il desiderio sfrenato di compassione scavalca le esigenze del Magistero, arrivando a pensare che l’unica verità proponibile sia quella della pratica pastorale concreta, adattata secondo i casi particolari, e non fondata su principi assoluti. In altre parole, alla fine del processo si può arrivare al relativismo.
A questo punto, la “misericordia” appare come la chiave di volta della civiltà dell’amore, il fondamento dell’era della buona volontà, in cui ogni discriminazione sarà stata finalmente superata. Una civiltà guidata non dalla ragione quanto dal sentimento, non dal Logos quanto dal Eros.
È evidente che, descrivendo in questo modo il processo, non intendiamo affermare che esso si svolgerà, necessariamente e in tutti i casi, fino alla fine. Una certa propaganda al servizio del progressismo ci proverà senz’altro. Spetta ai cattolici fedeli “esorcizzare” la magia della parola talismano, riportandola ai suoi contenuti teologici tradizionali.

da: Rivista Tradizione, Famiglia, Proprietà
Note
1. Plinio Corrêa de Oliveira, «Trasbordo ideologico inavvertito e Dialogo», Editoriale Il Giglio, Napoli 2012.
2. Juan José Pérez Soba, «La misericordia, verità pastorale», Cantagalli, Siena 2014.

venerdì 10 luglio 2015

A Termini Imerese si presenta "A buela è" di Giusi Lombardo

Motti, detti, proverbi, filastrocche, fiabe ma anche usanze e costumi del popolo siciliano. Questi sono gli argomenti che tratta il libro "A buela è", edizioni Thule, di Giusi Lombardo, scrittrice e poetessa palermitana, che verrà presentato venerdì 10 luglio alle ore 18,30, presso il New Yachting Club al Porticciolo Turistico di Termini Imerese. Interverrà Sara Favarò, scrittrice e ricercatrice di tradizioni popolari. Ad organizzare l'evento è l'associazione culturale Termini d'Arte.

Giuseppe Basile, Il teorico "concreto" del restauro dell'opera d'arte al Mandralisca di Cefalù

L’Aisar e l’Archeoclub d’Italia con la Fondazione Mandralisca e il Comune di Cefalù presentano la II edizione del seminario “Giuseppe Basile: il teorico “concreto” del restauro dell’opera d’arte”sabato 11 luglio ore 19.30 - terrazza della Fondazione Culturale Mandralisca di Cefalù. E’ arrivato alla seconda edizione il seminario promosso dall’Aisar e dall’Archeoclub d’italia dal titolo: Giuseppe Basile, il teorico "concreto" del restauro dell’opera d’arte, che a due anni dalla scomparsa ricorda l’importante storico dell’arte e restauratore siciliano. Allievo di Cesare Brandi e direttore presso l’Istituto centrale per il restauro di Roma , Giuseppe Basile, nel corso della sua carriera ha progettato e diretto i più prestigiosi e complessi restauri , tra cui il Cenacolo di Leonardo a Milano , la Camera degli sposi di Mantova, la Basilica di San Francesco d’Assisi, la Cappella degli Scrovegni a Padova.
L’obiettivo del seminario è quello di contribuire ogni anno all’approfondimento di alcuni aspetti dell’importante scienza del restauro e ricordare l’eccezionale contributo di Basile al dibattito sulla teoria del restauro del suo maestro Cesare Brandi ma anche alla messa a punto di un modus operandi che rifacendosi alla teoria brandiana riesce a dare risposte ai più complessi casi di conservazione e restauro di opere d’arte in Italia e nel mondo.
Quest’anno i relatori Vìncenzo Scuderi e Vlado Zoric ricorderanno l’impegno di Giuseppe Basile in Sicilia. Stefano D’amico e Angelo Rubino approfondiranno invece il ruolo del rilievo e della documentazione grafica e fotografica nei cantieri di restauro da lui diretti.
Sarà presente la Signora Vita Russo Basile. Giuseppe Basile, siciliano d’origine, si è laureato nel 1964 in Storia dell’Arte all’Università di Palermo con Cesare Brandi; subito dopo si trasferisce a Roma per frequentare tra il 1965 ed il 1967 la Scuola di Perfezionamento in Storia dell’Arte dell'Università La Sapienza che aveva, allora, come Direttore Giulio Carlo Argan. Dal 1976 è funzionario storico d’arte presso il Ministero per i Beni culturali ed ambientali, assegnato alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma; dopo cinque mesi viene trasferito presso l’Istituto centrale del restauro, oggi Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro. Presso l’ICR assume prima, tra il 1976 e il 1980, la direzione ad interim del Servizio interventi sui beni architettonici e dell’Ufficio Tecnico dell’ICR, poi, tra il 1981 e il 1987 dirige anche la Sede staccata del San Michele. Sotto la sua direzione sono stati eseguiti alcuni tra i lavori di maggior complessità e prestigio che l’ICR abbia affrontato in quegli anni. Tra questi è importante ricordare l’intervento

sugli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova e l’intervento di ricostruzione degli affreschi nelle volte crollate a seguito del terremoto nella Basilica di San Francesco ad Assisi. A partire dall’anno accademico 1991-92 è stato docente di Teoria e storia del restauro delle opere d’arte presso la Scuola di specializzazione in Storia dell’arte all’Università “La Sapienza” di Roma e poi presso il Dipartimento di Storia dell’Arte. Nel 1995 diviene membro ordinario della Pontificia commissione per i Beni culturali della Chiesa e della Pontificia commissione di archeologia sacra. Negli ultimi anni, in coincidenza con il centenario della nascita di Cesare Brandi (2006), ha promosso numerosi incontri e convegni – uno anche a Cefalù – con l’obiettivo di approfondire i contenuti del pensiero e dell’attività dello studioso senese. Tra le sue iniziative, in questi anni, si sottolinea la fondazione, a Palermo, dell’Associazione Culturale “AISAR” (Archivio Internazionale per la Storia e l’Attualità del Restauro) – per Cesare Brandi – e dell’ Associazione Amici di Cesare Brandi. Anche in Sicilia, Giuseppe Basile è stato direttore dei lavori di restauro di importantissime opere d’arte. L’AISAR Archivio Internazionale per la Storia e l’Attualità del Restauro “Giuseppe Basile per Cesare Brandi”, aperto al pubblico dal 7 novembre 2012, funziona come centro informativo specializzato nel restauro dei Beni Culturali, come biblioteca con testi donati dal prof. Giuseppe Basile e come archivio. Il suo obiettivo è studiare, approfondire, diffondere, sia in Italia che fuori, il pensiero e l’attività dei protagonisti della tradizione italiana del restauro e in particolare di Cesare Brandi, la cui Teoria del restauro è tradotta nelle più diffuse lingue estere; progettare, organizzare e realizzare attività formativa specialistica di supporto. L'Archeoclub d'Italia è un'Associazione culturale e di volontariato con finalità di solidarietà sociale, civile e culturale, senza fini di lucro, a carattere nazionale con Sede in Roma, riconosciuta quale persona giuridica con decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1986 n. 565. L'Associazione persegue i seguenti scopi: promuovere e valorizzare i beni culturali, paesaggistici e ambientali di cui al Codice dei Beni Culturali e del paesaggio; tutelare e valorizzare la natura, l’ambiente, e il paesaggio; diffondere fra i cittadini, e in particolare fra i giovani e nella scuola, l'interesse per i beni culturali e per l'ambiente; contribuire alla formazione di una pubblica opinione informata sui Beni Culturali, anche in maniera critica e propositiva; assicurare ai soci occasioni per il proprio arricchimento culturale; concorrere con lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e gli Enti pubblici e privati, con gli Organi dell’Unione Europea e con gli altri Organismi internazionali o comunque Stati esteri; svolgere compiti di protezione civile nel settore di Beni Culturali.

giovedì 9 luglio 2015

Mostra a Capo d'Orlando di Ilaria Caputo


L'anima? Soffocata dai bisogni materiali


di Padre Giulio Maria Scozzaro

In una società che si preoccupa eccessivamente dell’apparenza, andando oltre il limite del rispetto e della cura del corpo, Gesù oggi ci mostra l’importanza dell’anima. Anche se non si vede, l’anima è la vita del corpo, senza l’anima il corpo è costretto al deperimento, alla putrefazione.
L’anima viene ignorata anche dalla maggior parte dei cristiani, segno di indifferenza e di preoccupazioni rivolte alla materia.
C’è un equilibrio da trovare tra la spiritualità del Vangelo e le cose materiali necessarie, perché il corpo ha le sue esigenze ma è un grave danno dargli più di quanto necessita. Si arriva in questo modo all’idolatria del corpo, curandolo eccessivamente come se fosse l’unico aspetto importante della vita.
Il corpo non va mai trascurato, ma l’anima prevale nella considerazione totale. È vero che l’anima non si percepisce sensibilmente come il corpo, allora bisogna chiedersi da dove provengono i sentimenti, i ricordi, tutte le inclinazioni proprie di una persona.
Il corpo non ha queste facoltà, sono proprie dell’anima e chi si preoccupa di essa come del corpo, si santifica in questo mondo folle. L’episodio narrato oggi ci mostra la forte preoccupazione di Gesù nei confronti dell’anima, anche se davanti a Lui si trovava un paralitico. Altri avrebbero fatto attenzione al suo stato fisico, Gesù immediatamente verificò spirito e corpo, mostrando la prevalenza dello spirito e non appena glielo portarono davanti, gli disse: “Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati”.
Gesù si interessò dell’anima senza trascurare il corpo del paralitico.
Lo stesso continua a fare con ognuno di noi, Egli non si dimentica di nessuno, non trascura le richieste dei suoi adoratori, perché è Dio e in Lui la bontà è sempre attiva. Non condanna ma perdona quanti rientrano in sé e decidono di iniziare un cammino di Fede autentico.
In qualche modo ogni essere umano è paralitico in qualcosa, non appoggia bene sui valori cristiani, non osserva i Comandamenti come vuole Dio, non dedica molto tempo alla preghiera perché preoccupato eccessivamente delle cose mondane.
Chi si lascia avviluppare dalle preoccupazioni umane non ha più alcuna tensione verso la vita spirituale e non riesce ad osservare i Comandamenti. Gesù vuole ripetere “alzati e cammina” a tutti quelli che cadono e non si rialzano. Quelli che rimangono lontani da Dio e restano privi di gioia e di pace.
Gesù ha “il potere sulla terra di perdonare i peccati”, di donare -a chi la richiede- la vera Luce che illumina e vince anche le tenebre.




Napoleone e la fine di Venezia