giovedì 28 gennaio 2016

XX Edizione Concorso Internazionale di Poesia “Il Saggio - Città di Eboli”

Il Concorso si articolerà in quattro sezioni:

Sezione A - Poesie a tema libero in lingua italiana;
Sezione B - Poesia a tema libero in vernacolo;
Sezione C - Poesia religiosa;
Sezione D - giovani a tema libero (fino a 18 anni al 30 aprile 2016);
Sezione E - Libri editi (categorie: Poesia, Narrativa, Saggistica);
Sezione F - Libri inediti (categorie: Poesia, Narrativa, Saggistica).

Quota di partecipazione - Per ogni opera iscritta al concorso nelle sezioni A - B - C - E si richiede un contributo di partecipazione di 10,00 Euro (gratuito per le carceri e per gli istituti di cura - serve il timbro della struttura). Per ogni gruppo di tre poesie il contributo richiesto è di 25,00 Euro. Per la sezione D non necessitano quote.  Per la sezione F la quota è di 25,00 Euro. Ogni concorrente può partecipare con un numero illimitato di poesie o libri (la sezione D con una sola poesia). Tale contributo servirà a coprire parzialmente le spese organizzative. La quota di partecipazione può essere cumulabile tra le sezioni A, B, C, E. La quota di partecipazione dovrà essere versata sul CCP n. 1009316868, intestato a Centro Culturale Studi Storici (tel. 3281276922) via Don Paolo Vocca, 13 - 84025 Eboli (SA), indicando nella causale XX Concorso Internazionale di Poesia “Il Saggio - Città di Eboli”. IBAN: IT80 B076 0115 2000 0100 9316 868

Copie - I concorrenti debbono inviare 5 copie per ogni poesia (A,B,C,D), una ulteriore copia completa di nome e cognome, indirizzo, recapito telefonico ed eventuale indirizzo e-mail. Per la sezione E e F necessitano tre copie del libro, specificando la categoria: Poesia, Narrativa, Saggistica.

Scadenza del bando - Le poesie dovranno essere spedite unitamente alla copia della ricevuta di versamento, non oltre il 30 aprile 2016 (timbro postale) a: Centro Culturale Studi Storici - via don Paolo Vocca, 13 - 84025 Eboli (SA).

Premi - La Giuria, il cui giudizio è insindacabile ed inappellabile, premierà i primi dieci classificati più altri 40 premi speciali delle sezioni A, B, C, D, con le eventuali medaglia (se saranno concesse): della Presidenza del Senato, della Presidenza della Camera, del Pontefice, targhe, diplomi ed altro. La giuria ha la facoltà di attribuire premi speciali e di menzionare o segnalare le liriche più meritevoli. Per la sezione E e F, la Giuria premierà i primi cinque classificati con medaglie e targhe, mentre se il libro è inedito stamperà l’opera e donerà trenta copie all’autore. Alcune poesie potranno essere pubblicate su “Il Saggio, poesia, arte, libri”, organo del Centro. La cerimonia di premiazione avrà luogo in Eboli dal 18 al 23 luglio 2016 (solo per le sezioni A, B, C, D) (La giuria viene nominata di anno in anno dal Presidente del Centro e le norme di valutazione vengono prese separatamente, previo incontro con il Presidente di giuria. Il giurato esamina e valuta dando un voto da 0 a 60 per ogni poesia. Il segretario, che non fa parte della giuria, fatta la somma di tutti i voti forma una classifica delle poesie e la passa alla giuria. La giuria forma i gruppi: 1°-15°, 16°-30°, 31°-50°. Durante la settimana della manifestazione le poesie saranno lette pubblicamente e la giuria formerà la classifica finale. Sarà presente anche una giuria popolare). La premiazione delle sezioni E e F avverrà nel mese di ottobre 2016.

Annotazione - Le poesie pervenute non verranno restituite e potranno essere utilizzate per un’eventuale pubblicazione edita dal nostro Centro. Ogni opera dovrà essere frutto esclusivo del proprio ingegno. Le poesie oggetto di plagio saranno automaticamente escluse dal Concorso ed il partecipante sarà cancellato dall’elenco dei poeti del Centro Culturale Studi Storici. E’ vietata la partecipazione al Concorso a tutti quelli che fanno parte della Redazione de “Il Saggio”, del Direttivo del Centro Culturale, nonché ai collaboratori editoriali e loro parenti di primo grado. La partecipazione al concorso implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento.

Legge 196/2003 - Il Centro Culturale Studi Storici assicura che i dati personali acquisiti vengono trattati con la riservatezza prevista dalla legge e saranno utilizzati esclusivamente per l’invio di informazioni. Ogni poeta può richiedere la cancellazione dagli elenchi cartacei e telematici del Centro inviando una semplice comunicazione.

Giuseppe Barra

mercoledì 27 gennaio 2016

Il simbolismo nell’arte sacra

di Francesco Agnoli

L’edificio-chiesa è simbolo:

– del corpo di Cristo crocifisso: il transetto sono le braccia distese, la navata il corpo, l’abside la testa. La forma semi-circolare dell’abside ricorda la curvatura del capo umano. In alcune chiese l’asse dell’abside è inclinato rispetto a quello della navata centrale, proprio come la testa di Cristo crocifisso.
– della Chiesa spirituale: Cristo, dice S.Paolo, è il “capo del corpo che è la Chiesa”: la Chiesa viene paragonata ad un corpo fatto di tante membra e il suo capo è Cristo stesso. La chiesa-edificio è un insieme di pietre che formano il tutto: “pietre vive” che poggiano sulla “pietra angolare” che è Cristo per formare una comunità che è comunione dei Santi (Chiesa militante, purgante, trionfante). S.Pietro: “Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo…”(1Pt.2, 4-6).

– dell’uomo: esso è infatti “tempio vivente di Dio”. Ogni uomo, soprattutto quando riceve l’Eucarestia, è tempio di Dio. Gesù afferma: “Distruggete questo tempio ed in tre giorni lo farò risorgere”(Gv.2, 19). Il tempio in questione è il suo corpo, tempio della sua anima che è Dio stesso: “egli parlava del tempio del suo corpo”.

– della Gerusalemme celeste, e cioè la città di Dio, il Paradiso: è già la porta ad annunciarlo nella grande lavorazione che la contraddistingue. La porta romanica, con il suo protiro, la porta gotica, con le sue strombature e la ricchezza delle decorazioni, vogliono significare la distinzione fra i due spazi, l’interno e l’esterno, la chiesa ed il mondo profano (:pro=davanti,fuori; fanum=tempio).

La porta viene definita “ianua coeli”, porta del cielo: “Tu che entri, guarda verso il Cielo”, così è scritto sulla porta di ingresso della chiesa di Mozat; oppure un’iscrizione tolta dalla Genesi: “Quanto terribile è questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo”(Gen.28, 17). La chiesa è l’ovile del Paradiso: “Io – dice Gesù – sono la porta da cui entrano le pecore…Io sono la Porta: se uno entra attraverso di me sarà salvo” (Gv.10, 7-9).
Il gotico ama le tre porte, simbolo della Trinità, consacrate contemporaneamente da tre sacerdoti diversi; le tre porte possono ripetersi su ogni lato, divenendo dodici, quanti gli apostoli, capostipiti delle dodici tribù della Nuova Israele.
Il modello che Suger, l’autore della prima chiesa gotica, vuole seguire, è la descrizione dell’Apocalisse: “Vidi anche la città santa, la Nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente…‘Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio con loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi…’. L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande ed alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme che scendeva dal cielo…Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte…A Oriente tre porte, a Settentrione tre porte, a Mezzogiorno tre porte e ad Occidente tre porte…Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a vetro puro…Non vidi alcun tempio in essa perchè il signore Dio, l’onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, nè della luce della luna, perchè la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello”(Ap.21).
Cosa fa Suger a Saint-Denis? Vuole inondare tutto di luce, di “oro puro”, di “vetro puro”, di diaspro e pietre preziose, come nella Gerusalemme celeste, soprattutto nell’abside, il luogo dei più abbaglianti incontri con Dio. Fa abbattere le pareti del coro per unificarle nella luce; sostituisce le grosse strutture in pietra con colonnne esili, pietra traforata e con quelle grandi vetrate tipiche del gotico, che, talora, vengono ad occupare tutto l’abside, come nella Saint-Chapelle di Parigi.
Adorna il sepolcro di san Dionigi, le pareti, l’altare, di oro, argento ma soprattutto di cristalli, pietre smerigliate, materiale trasparente e traslucido con cui la luce penetrata dalle grandi finestre possa giocare, riflettersi, propagarsi fra luccichii e bagliori. Scive Suger: “Perciò, quando per l’amore che nutro per il decoro della casa di Dio, la multicolore leggiadria delle gemme mi distrae dalle preoccupazioni terrene e, trasferendo anche la diversità delle sante virtù dalle cose materiali a quelle immateriali, l’onesta meditazione mi persuade a concedermi una pausa…mi sembra di vedere me stesso in una regione sconosciuta del mondo, che non è completamente nè del fango terrestre, nè si trova del tutto collocata nella purezza del cielo, e mi sembra di essere in grado di trasferirmi, con l’aiuto di Dio, da questo mondo inferiore a quello superiore, in modo anagogico”.
Sulla porta fa apporre questa iscrizione, in latino: “Chiunque tu sia che vuoi esaltare l’onore di queste porte, non ammirare l’oro nè la spesa, ma la fatica dell’opera, opera nobile che splende, ma che splendendo nobilmente illumini le menti, affinchè attraverso lumi veri giungano alla vera luce, dove è Cristo, porta vera”.
La chiesa gotica finisce così per presentarsi come ad un visitatore del XVII sec. della cattedrale di Leon: “Di altre chiese si dice che sembrano una coppa d’argento; di questa si può dire che non solo sembra, ma è una coppa di vetro da cui si può bere”.
Nella Gerusalemme celeste dell’Apocalisse non c’è il sole, perchè Dio stesso è il suo sole che la illumina e la vivifica: nelle chiese gotiche vengono aperti i rosoni, immagine della perfezione del cerchio, nuovi soli che illuminano le cose e simboleggiano la luce spirituale.
E’ un nuovo simbolismo solare che si aggiunge ai precedenti: fin dai primi tempi le chiese vengono volte ad Oriente, verso il “sole che sorge e viene ad illuminare coloro che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte”. All’aurora, mentre i raggi del sole sorgente invadono l’abside e l’altare, i monaci si alzano a cantare, per salutare il “Sol Salutis”, la luce di Cristo che è venuto da oriente per salvare l’umanità; la sera sono i raggi del “Sol Iustitiae”, che giunge a giudicare alla sera del mondo, ad essere accolti nello spazio sacro e circolare dell’abside.
La luce è dunque la caratteristica della Gerusalemme celeste come delle cattedrali gotiche. Proviamo a vedere alcuni perchè. Anzitutto è la prima parola della creazione: “Dio disse: ‘Sia fatta la luce’ ”; Grossatesta commenta: “La prima parola del Signore creò la natura della luce e disperse le tenebre, e dissolse la tristezza e rese immediatamente ogni specie lieta e gioiosa. La luce è bella di per sè, poichè la sua natura è semplice, e ha in sè tutte le cose insieme; perciò è massimamente unita, e proporzionata a sè in modo assai concorde a causa dell’uguaglianza; invece la concordia delle proporzioni è bellezza…Essa fra le cose corporali è la dimostrazione più evidente per via analogica della somma Trinità. Perciò Dio, che è luce, giustamente ha cominciato l’opera dei sei giorni dalla luce stessa, di cui tanto grande è la dignità”.
In secondo luogo si può dire che, fra le creature corporali, la luce è quella che maggiormente può essere considerata vestigio di Dio, secondo il concetto filosofico per cui ogni effetto o creatura è in parte simile ed in parte differisce dalla causa o creatore: come il manufatto di un artigiano “contiene” qualcosa dell’artigiano stesso, la sua fantasia, la sua abilità, ma ne è inferiore, così anche le creature di Dio sono, più o meno, immagine di Dio.
Egli, dice S.Bonavventura, “relucet et latet” nelle creature, e, fra queste, riluce soprattutto nella luce:

– Dio è Verità che conosce perfettamente se stesso e permette alle realtà spirituali, agli occhi dello spirito, di conoscere la verità spirituale. Come verità ha soprattutto la capacità di manifestare e di manifestarsi: la luce del sole è ciò che nel mondo maggiormente manifesta e si manifesta, facendo conoscere agli occhi della carne le realtà materiali.

– Dio è Vita, colui che la dà e che in essa ci mantiene: la luce del sole è principio fondamentale di vita per tutta la natura, nella generazione, nel mutamento e nella corruzione.

– Dio è Spirito invisibile e la luce è un corpo “spirituale”, il corpo materiale che più assomoglia alle realtà spirituali, alla dimensione metafisica, intangibile, impalpabile eppure evidente, anzi l’evidenza stessa.

– Dio è Bellezza, e la luce, secondo il francescano Grossatesta, è “maxime pulcrificativa et pulcritudinis manifestativa”, e cioè massimamente capace di manifestare le altre bellezze e nello stesso tempo di conferire bellezza anche alle cose che di per sè non la possiedono.

– Dio è Unità, Uguaglianza e Semplicità: la luce, in un certo senso, genera se stessa da se stessa – come Cristo è il “lumen de lumine”, il “lumen genitum”- senza dividersi, mantenendo unità nella sua espansione, avendo la più grande armonia possibile nella perfetta proporzione ed unità delle sue “parti”.

Inoltre, come notava uno dei primi grandi scienziati della luce, si muove secondo due figure: la retta ed il cerchio, cioè le figure che hanno massima semplicità, “unità ed uguaglianza senza angolo”. Tutti gli altri movimenti della luce, e cioè la rifrazione e la riflessione (linee spezzate) non sono propriamente naturali, in quanto nascono da ostacoli interposti alla luce.
Rimanendo nell’osservazione scientifica si può notare che la luce è una sola, la luce bianca, ma contiene in sè i tre colori primari, i quali danno a loro volta i sette colori dell’iride: essa dunque richiama Dio come Unità e Trinità ad un tempo, e lo Spirito Santo come datore dei sette doni, le sette lampade dell’Apocalisse, i sette sacramenti…; mentre il nero, che contraddistingue le tenebre, non è un colore, ma assenza e privazione di colore e di luce.

– Dio è Bene, ed in quanto tale “diffusivum sui”, diffusivo di sè, donatore e propagatore di vita, come la luce stessa è diffusiva di sè, ed è come la Carità (=Bene) “che tutto abbraccia”.

L’immagine della Gerusalemme celeste, posta su di un “monte grande e alto” (Ap.21,10) ne richiama un’altra: la chiesa, l’altare è immagine del monte santo, “il santo monte Sion, dove hai preso dimora”( Salmo 73). Nella messa noi diciamo, ripetendo il salmo che gli ebrei cantavano inerpicandosi sul monte Sion per andare al tempio: “Emitte lucem tuam et veritatem tuam: ipsa me deduxerunt et adduxerunt in montem sanctum tuum et in tabernacula tua”.
Questa montagna luminosa è come la chiesa di Mont Saint Michel o Montmartre a Parigi, ma anche come l’altare di pietra sopraelevato e illuminato dai candelabri:simboleggia il Sinai, dove Mosè riceve la legge; il Carmelo, dove Elia incontra l’eterno, il monte Sion, dove gli ebrei avevano il tempio, il Tabor della trasfigurazione, il Golgota, su cui Gesù è morto in croce. Per questo, nella vecchia messa, per cui il romanico, il gotico, il barocco…sono costruiti, l’altare è rialzato e di pietra, con le reliquie dei martiri dentro; di pietra come i monti santi; di pietra come l’altare del Genesi eretto da Giacobbe (Gen.28); di pietra come l’altare degli olocausti nel tempio di Gerusalemme; di pietra come Pietro, su cui è costruita la Chiesa e come Cristo, “pietra angolare che i costruttori hanno scartato”.
A Cristo si riferisce Isaia quando dice: “Ecco io pongo una pietra in Sion, una pietra scelta, angolare, preziosa, saldamente fondata: chi crede non vacillerà”(Is.28, 16); e S.Paolo: “bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo (petra erat Christus, I Cor.10, 3-4). S.Ambrogio ci dice che l’altare è immagine del Corpo di Cristo in quanto è Cristo stesso, immolatosi sulla croce, ad essere divenuto altare del Sacrificio fatto a Dio Padre.
Parlando di lui la Scrittura ci dice: “Noi abbiamo un altare” (Eb.23, 10).
L’altare diventa così il centro del mondo, come nella Scrittura lo sono Gerusalemme ed il monte Sion: non il centro geografico ma il centro spirituale, come dimostrano il ciborio o il baldacchino postivi sopra: un tempio nel tempio, un tempio costituito da quattro colonne, simbolo della terra, dei quattro elementi, dei quattro punti cardinali (i quattro venti, i quattro angoli del mondo), e da una semisfera, simbolo del cielo, e per questo, spesso, stellata e azzurra. Il significato della cupola è uguale: la base quadrata simboleggia la terra, il cerchio, figura perfetta, è immagine del cielo.
Questo perchè la chiesa, nel suo complesso, è anche immagine del mondo intero, della creazione, della grande cattedrale della natura edificata da Dio. Tutto il mondo è infatti pieno della sua gloria: “Tutta la terra è piena della tua gloria” (Is.6,3), anche se la chiesa ha in più una presenza particolare, quella di Cristo, anche col suo corpo, nel “sancta sanctorum” del tabernacolo. Questa immagine dell’universo è così espressa da S.Gregorio Magno: “Nell’ora del sacrificio, alla voce del sacerdote i Cieli si aprono…a questo Mistero partecipano anche i cori angelici…il cielo e la terra si uniscono, il visibile e l’Invisibile divengono una sola cosa”; e S. Massimo Confessore: “E’ cosa davvero mirabile che, nella sua piccolezza, (questo tempio) sia simile al vasto mondo…Ecco che la sua copertura è tesa come i cieli: senza colonne, incurvata e chiusa; e inoltre è ornata da mosaici d’oro come il firmamento lo è da stelle brillanti. Ed ecco che la sua cupola elevata è paragonabile al cielo dei cieli. E, simile ad un elmo, la sua parte superiore riposa saldamente sulla parte inferiore. I suoi archi, vasti e splendidi, assomigliano inoltre, per la varietà dei colori, all’arco glorioso, quello delle nubi”.
Tabernacolo: qui la presenza di Dio è completa, è l’Emmanuele, il “Dio con noi” dell’Apocalisse, e, come “padrone di casa”, è posto in posizione centrale e immediatamente visibile. Ci sono diversi tipi di tabernacolo: anticamente si usava spesso una colomba sospesa in aria sopra l’altare; poi, col barocco, si affermano soprattutto due tipologie: il tabernacolo basso e disadorno (sormontato da uno spazio per l’esposizione), che ricorda il Sepolcro dove Gesù fu deposto dopo la morte in croce (rammenta quindi il carattere sacrificale della messa); il tabernacolo a forma di tempietto, con la cupola, le colonnine: una piccola “Domus Dei” all’interno di quella più grande che è la chiesa.
Prima del gotico, in cui la luce è quella del sole, delle vetrate e dei cristalli, per rendere l’idea della chiesa come Gerusalemme celeste si usava lo sfondo dorato, soprattutto nell’arte bizantina. L’oro è anch’esso luce, luce particolarmente preziosa, ed ha la proprietà di collocare le figure fuori del tempo e dello spazio, e cioè in una dimensione completamente soprannaturale: Dio, il Paradiso, i santi, sono nell’eternità, non sono limitati dallo spazio, dal tempo, dalle cose terrene.
Per questo le chiese protestanti (e anche quelle “cattoliche” odierne) che rifiutano la concezione della messa come sacrificio, come Gerusalemme celeste, come immagine di Cristo e della sua creazione, sono totalmente diverse.
La “messa” protestante necessita di una chiesa protestante: non più volta ad Oriente, non più pianta a croce, non più luce, finestre gotiche, sfondi oro; non più altare rialzato, altare di pietra, sormontato dal tabernacolo: ma tavola di legno, a livello del terreno, dove si compie una cena, un memoriale, un incontro fra uomini, assemblea e presidente, non nella casa di Dio ma in una casa degli uomini, dove sulla porta, che è uguale a quelle normali, non ci può più essere scritto: “Tu che entri guarda verso il cielo”.
Dov’ è il cielo, dove la cupola, il ciborio, il baldacchino, l’azzurro e le stelle delle volte, il rosone…? Dov’è il tabernacolo, la tenda dell’Emmanuele, il “Dio con noi” ? Dove sono le mura di diaspro, d’oro, di topazio, di vetro puro della Gerusalemme celeste dell’Apocalisse; i suoi cittadini, le statue dei santi, la pietra sui cui poggiare, solida, forte, da cui scaturisce il cibo spirituale? Non c’è più il canto gregoriano; gli amici di Lutero abbattono gli organi, bandiscono l’armonia di una musica che vuole avvicinarsi al coro degli angeli della corte divina, piuttosto che al canto profano, legato alle cose terrene. Si potrebbe continuare a lungo in questo triste elenco, ma una cosa sola ci deve importare: le chiese “cattoliche” moderne, quelle inaugurate per il Giubileo, addirittura senza croce, con il bar all’interno della “chiesa”, sono espressione, triste e squallida, di una grande decadenza; sono esattamente uguali alle chiese protestanti…
La nuova “arte”nasce alla fine degli anni sessanta: bisogna fare della messa una cena, un’assemblea, qualcosa di umano, un “mangiare attorno alla stessa tavola”; quindi bisogna trasformare la casa di Dio nella casa dell’uomo, dell’assemblea, farne un “teatro totale”, secondo l’auspicio degli innovatori legati al cardinal Lercaro, grande artefice della riforma liturgica ( G.Lercaro, “La chiesa nella città: discorsi e interventi sull’architettura sacra”, Paoline, 1996). La Gerusalemme celeste diviene allora un “teatro”; l’altare “il simbolo dell’assemblea”; il monte Sion, il Golgota, una collina da spianare; la cupola un cielo da abbattere e trascinare sulla terra, come in genere la dimensione soprannaturale, nell’unica dimensione ormai riconosciuta, quella orizzontale, dall’uomo all’uomo.

mercoledì 20 gennaio 2016

Sacerdoti per il Terzo Millennio - Trailer ed intervista a Don Pierpaolo Petrucci




Reverendo don Pierpaolo, prima un film sul vostro fondatore, ora un nuovo documentario centrato su quello che si può ben definire il cuore della sua provvidenziale opera.
In effetti si può dire che tutta la vita del nostro fondatore fu consacrata alla formazione sacerdotale. Infuocato dall'ideale del regno di Cristo sulla terra che S. Pio X aveva riassunto nel suo motto "instaurare omnia in Christo", Mons. Lefebvre, alla stregua del santo Pontefice, era persuaso che per trasformare la società e fondarla sui principi del vangelo occorrevano sacerdoti di una grande vita interiore e ben formati intellettualmente. Per questo fondò la Fraternità San Pio X che nei suoi seminari cerca di realizzare questo ideale.

Quanti sono i seminari della FSSPX nel mondo e quanti giovani vi studiano?
Per il momento abbiamo nel mondo 6 seminari; primo fra tutti il Seminario ‘San Pio X’ di Ecône, in Svizzera, che fu il primo e rimane il punto di riferimento degli altri; intimamente legato a lui vi è il Seminario ‘Santo Curato d'Ars’ a Flavigny, in Francia, dove si svolge il primo anno di spiritualità e dove risiede anche il noviziato dei frati della Fraternità di lingua francese. La Germania accoglie il nostro seminario del Sacro Cuore di Zaitzkofen, che ha realizzato il film fra qualche giorno disponibile sul nostro sito, doppiato dai nostri seminaristi italiani.
Negli ultimi anni il nostro Seminario ‘San Tommaso d'Aquino’ a Winona negli Stati Uniti, ha visto un notevole afflusso di vocazioni e i nostri superiori hanno dovuto metter mano ad un grande progetto di costruzione di un nuovo seminario, in Virginia, sufficientemente capiente per accogliere i giovani che desiderano rispondere alla chiamata di Dio. L'inaugurazione è prevista per il prossimo settembre. In America del Sud, e più precisamente a La Reja, vicino a Buenos Aires, in Argentina, il Seminario ‘Nostra Signora Corredentrice’ accoglie le sempre più numerose vocazione di lingua spagnola ed è diretto dal nostro don Davide Pagliarani. Infine in Australia, si trova l'ultimo nato fra i nostri seminari, quello di Santa Croce a Goulburn, frequentato dai seminaristi anglofoni residenti nell'emisfero sud.

Questo film sarà messo on-line, nella sua versione italiana, il prossimo 2 febbraio, sul sito internet del Distretto. C’è un significato particolare in questa data?
Il 2 febbraio è la festa della Purificazione di Maria e della Presentazione del Bambin Gesù al Tempio ed è una data molto importante per la nostra Fraternità. In quel giorno infatti in cui il Bambin Gesù fu consacrato a Dio come la legge prevedeva per i primogeniti, nei nostri seminari situati nell'emisfero nord, i giovani seminaristi del primo anno rivestono l'abito ecclesiastico.

“Sacerdoti per il Terzo Millennio” è un titolo che colpisce. E’, dunque, possibile che un prete in talare, che parla in latino e non sembra, mi passi il termine, “aggiornato” alle meravigliose sorti dell’attuale “pastorale della misericordia”, possa aver qualcosa da dire all’uomo contemporaneo?
L'uomo contemporaneo, certamente più che in altri periodi storici meno burrascosi, ha bisogno più che mai che gli si parli di Dio e che gli si trasmetta integralmente la dottrina rivelata da Nostro Signore, la quale, in quanto divina, non può cambiare con il tempo. Solo l'insegnamento di Gesù Cristo infatti può risponderà alle domande e alle esigenze più profonde dell'uomo sullo scopo ed il senso della vita e solo nel suo insegnamento si possono trovare le vere risposte anche ai problemi sociali. Per trasmettere integralmente il suo Vangelo occorrono sacerdoti che lo predichino con la parola e soprattutto con l'esempio, anche con il proprio abito. La veste talare infatti rappresenta la consacrazione totale che il sacerdote ha fatto della sua persona a Dio ed il suo desiderio di essere come morto alla cose mondane per divenire un tramite visibile fra gli uomini e Dio e trasmettere le cose sacre. Deve essere prima di tutto il sacerdote e non una specie di assistente sociale che vuole come mimetizzarsi fra gli uomini quasi a nascondere il suo carattere sacerdotale e dimentico dello scopo primordiale della sua missione che è la salvezza delle anime. Il sacerdote è chiamato ad essere ministro della misericordia di Dio nel confessionale ogni volta che il penitente manifesta una vera contrizione dei propri peccati. La vera misericordia infatti Dio la concede sempre, quando vi è il fermo proposito di non più peccare, ma se non vi è questa disposizione si tratta soltanto di una parodia e una mistificazione del dono di Dio di cui, come ci dice san Paolo, non ci si prende gioco. Quanto al latino non è certo la lingua di cui ci serviamo per la predicazione. La sua conoscenza è comunque molto utile perché ci permette l'accesso alle opere teologiche e filosofiche di secoli di tradizione ecclesiastica. Nella liturgia poi la lingua latina esprime il senso del sacro ed unisce i cattolici del mondo intero e di ogni tempo negli atti pubblici del culto a Dio.

Una delle sue prime realizzazioni, come Superiore del Distretto Italiano, è stata l’istituzione, presso il Priorato di Albano Laziale, del Pre-Seminario ‘S. Giuseppe’. Quali sono i suoi scopi e quanti frutti ha dato, in questi primi quattro anni di vita?
Nel fondare il Pre-seminario, lo scopo che ci siamo prefissi è stato duplice. Da una parte permettere ai giovani che lo desideravano di consacrare un tempo al discernimento della loro vocazione, dando loro le basi spirituali e dottrinali fondamentali per permettere loro eventualmente di accedere al seminario o al noviziato per coloro che si sentono chiamati alla vita religiosa. Dall'altro dare la possibilità ai giovani che hanno conseguito la maturità, di consacrare un anno alla loro formazione spirituale e dottrinale tramite i corsi che sono forniti: spiritualità, dottrina cristiana, atti del magistero, sacra scrittura, lingua straniera, latino, liturgia ecc. Dalla sua fondazione nell'ottobre 2012, numerosi sono stati i giovani che hanno trascorso un periodo di tempo fra le nostre mura e fra di essi, sei sono entrati in seminario e uno nel noviziato dei nostri religiosi. Attualmente quattro giovani ed un sacerdote stanno seguendo i nostri corsi.

"Sacerdoti per il Terzo Millennio” sarà visibile sul sito internet del Distretto e sul canale GloriaTv. Non è film ‘ad uso interno’, vuole arrivare a tutti per far conoscere la realtà della formazione sacerdotale della nostra congregazione. Si ringraziano anticipatamente tutti coloro che vorranno condividerlo sui loro siti, blog e social network.

martedì 19 gennaio 2016

Pubblichiamo due filastrocche di Vittorio Riera dalla raccolta inedita “Filastrocche per piccini e meno piccini”

Filastrocca dei colori

Se al giallo il blu tu mescoli
il colore t'appare d'una vasta prateria,
e se al blu il bianco aggiungi,
un cielo senza nubi o stelle
ti parrà d'indovinare.
Stendi sul rosso ancora il blu,
la vedi, la senti la mammola odorosa? 
E la gusti, nel silenzio, l'alba 
se al rosso il bianco lentamente stendi?

Lo so, lo so che tu stupisci.
Mi guardi? Proprio non mi credi?
Allora è giusto che tu ci provi.



Filastrocca del no no e no

(Sì,
lo so
che ai bambini
si dice spesso no no e no.
Ma talvolta è cosa santa e giusta.
Gusta, allora, questa mia fila e strocca,
e dimmi, infine, se davvero è proprio sciocca).

Non giocare mai col fuoco,
lascia fare solo al cuoco.

Scotta l'acqua se la tocchi
quando bolle con gli gnocchi.

Sta lontano dalla fiamma,
meglio il cuore della mamma.

Non giocare coi cerini,
son davvero dei cretini.

Se poi vedi un detersivo,
pensa a un altro diversivo:

a una bambola che parli
ad un merlo che ti ciarli
a un tramonto a un filo d’erba
a una luna ancora acerba
alla Barbie che fa l’inchino
alla gazza sul camino
a una rondine che guizza
ad un fiore che si drizza
ad un mare alle sirene
alla mamma che ti vuol bene …

Non toccare i fil di luce,
guarda mamma cuce e scuce.
Non aprire dov'è una croce,
rimarresti senza voce ...

(Qui interrompo la mia fila e strocca
e non mi pare davvero sciocca.
T’ho parlato a cuore aperto,
un tantino come esperto.
Tu dirai, o forse no,
sì, ma, però 
no no
no).

lunedì 18 gennaio 2016

L’angolo di Gilbert K. Chesterton – Grandezza e attualità di uno scrittore cattolico –

di Fabio Trevisan

Secondo Etienne Gilson (1884-1978), grande studioso francese di filosofia e storia medievale, il saggio di Chesterton su San Tommaso d’Aquino era senza possibilità di paragone il miglior libro mai scritto su San Tommaso. Nulla di meno del genio può rendere ragione di tale risultato. Quest’opera chestertoniana matura del 1933 è infatti, soprattutto nella seconda parte, stupefacente e filosoficamente molto profonda, come si evince anche da questo breve stralcio: “San Tommaso sostiene che in qualsiasi momento una comune cosa è qualcosa; ma non tutto ciò che potrebbe essere. C’è una pienezza dell’essere, in cui essa potrebbe essere tutto ciò che può essere”. Il sano realismo tomistico coincideva, per Chesterton, nell’esaltazione dell’essere e nell’affermazione risoluta di una prodigiosa filosofia permanente solida e oggettiva.
Era la filosofia del senso comune, come brillantemente il pensatore di Beaconsfield sottolineava: “Da quando nel sedicesimo secolo ha avuto inizio il mondo moderno, nessun sistema filosofico è venuto a coincidere con il senso di realtà dell’uomo qualsiasi; con ciò che gli uomini comuni lasciati a se stessi, chiamerebbero realtà”. Cosa rimproverava lo scrittore inglese, sulle orme dell’Aquinate, al mondo moderno? L’aver abbandonato il credo e il dogma, proponendo una religione alternativa dell’intuizione e del sentimento: “Fu il rigido credo a resistere all’assalto del sentimento suicida…A tenere il pensiero in contatto con un pensiero più sano e più umanistico fu semplicemente e unicamente il dogma”.
Con l’eresia di Martin Lutero il pensiero aveva lasciato posto definitivamente, secondo le testuali parole di Chesterton, alla suggestione. Alle derive, appunto, suggestive ed esilaranti (nel senso peggiore del termine) delle filosofie moderne, lo scrittore londinese contrapponeva con vigore ed umoristicamente la filosofia perenne tomistica: “La filosofia si San Tommaso è fondata sull’universale comune convinzione che le uova sono uova. L’hegeliano potrà dire che l’uovo è in realtà una gallina, poiché è parte dell’incessante processo del divenire; il berkeleiano potrà sostenere che un uovo in camicia esiste solo come esiste un sogno; il pragmatista potrà credere che otterremo il massimo dalle uova strapazzate dimenticando il fatto che sono state uova, e ricordando soltanto lo strapazzamento. Ma nessun discepolo di San Tommaso avrà bisogno di rimescolarsi il cervello allo scopo di ben rimescolare le uova o di andarsi a mettere in una particolare angolatura per guardare le uova; di guardare le uova di traverso o di strizzare l’occhio così da vedere una nuova semplificazione delle uova. Il tomista sta alla luce del sole della confraternita umana, nella comune consapevolezza che le uova non sono galline né sogni né meri assunti pratici, ma cose attestate dall’autorità dei sensi, che viene da Dio”.
Credo che l’esempio di Chesterton possa aiutarci a capire, anche ai nostri giorni, quale tipo di battaglia si debba intraprendere. Egli coniugava ortodossia e umorismo cristiano, miscelando intelligentemente provocazione e sorpresa in quella sintesi mirabolante chiamata “paradosso”. Con un gioco di parole molto serio egli definiva in questo modo l’importanza del dogma e dell’ortodossia: “Insegui il dosso (nel significato di doxa=opinione), persegui il dosso affinché il dosso sia ortodosso”. Egli non tralasciava nulla di intentato per favorire la conversione dell’uomo e credeva che la filosofia di San Tommaso sarebbe stata la garanzia permanente della sanità mentale. Chesterton era consapevole che il crollo, prima ancora che essere di carattere morale, aveva a che fare con il pensiero, con l’ortodossia.

sabato 16 gennaio 2016

Pubblichiamo due filastrocche di Vittorio Riera

Dalla raccolta
Filastrocche per piccini e meno piccini

FILASTROCCA AL PATATRAC
Mamma mia, che parapiglia
con le biglie nella paglia
mentre un ciuco roco raglia
per la rabbia che lo piglia.
Gesù mio, che patatrac
sulla trave il flic-flac
d'un omino tutto in frac
e il trombone al tic-tac.
Mamma mia, che putiferio,
Gesù mio, che confusione,
quando un bimbo tutto serio
scambia un matto per mattone.
Parapiglia, putiferio,
confusione, patatrac,
ma che importa se la vita
ogni tanto è tutta un crac.
(4.11.1990)


FILASTROCCA FRA LE NUVOLE


Filastrocca del papero d'oro,
gli scemi un poco il suo tesoro.

Una carezza per Paperino,
un po' furbetto, ahimè tapino.

Un sorriso per il Topo in lino,
orecchio attento, occhio ultrafino.

Un buffetto per Basettoni,
commissario per i buoni.

Amicizia per Lupetto,
gentile tanto: un chilo e un etto.

Tutti allerta, ecco Ezechiele,
via, anche a lui un po' di miele.

Per quei furbi dei bassotti,
una banca ...di falsi biscotti.

E all'invisibile Macchia Nera?
Un giorno che sia sempre sera.

Una scuola per il buon Pippo,
che pure scioglie ogni inghippo.

Una collana per Clarabella,
né sposataneppur zitella.

Una pipa per Orazio,
a metà fra pena e strazio.

Un bel dondolo per Archimede,
che nella scienza sempre crede.

Mai più infine per Qui Quo Qua:
“Pulite qui! Spazzate là!” (5.11.1990)


mercoledì 13 gennaio 2016

Presentazione del libro "Ommini donne e 'n po' de paradiso" di Riccardo Ascoli



Presentazione dell'antologia "I poeti e la crisi" a cura di Giovanni Dino



Il 15 gennaio 2016 alle ore 16, 30 nella sala Chinnici della biblioteca comunale Edoardo Salmeri, viene presentato a Villabate il libro antologico “I poeti e la crisi”. Si tratta di una raccolta di 179 testi poetici di 179 poeti che hanno espresso attraverso il loro componimento una loro testimonianza sulla crisi e contro la crisi economica e civile del nostro paese. Il libro è stato presentato nello scorso mese di novembre a: Mestre (VE), Modena, Torino, Firenze, Rimini. 
L’invito a partecipare alla presentazione de I POETI E LA CRISI è rivolto a tutta la cittadinanza. Si tiene presente che tale presentazione è la prima che si fa in Sicilia Partecipano all'evento alcuni poeti presenti nell’antologia 
Ci parleranno del libro Elio Giunta (poeta-giornalista) Vincenzo Arnone (sacerdote-scrittore) e l’editore Tommaso Romano (poeta-saggista) Moderatore: dott. Francesco Giglio (Presidente del circolo “A. Grandi” di Villabate )
Saranno presenti il Sindaco dott. Vincenzo Oliveri e il curatore Giovanni Dino

Presentazione di Stefano Carlo Vecoli


NUN S’HAV’A SPIRTUSARI U MARI di Vittorio Riera

No, u mari nun s’hav’a spirtusari u mari
è la nostra vita la vita di li nostri
occhi di li nostri aricchi.
O com’bellu séntiri nna lu silenziu
di la notti la risacca di l’unna
che s’annaca ntra lu virdi di l’alighi!
com’è bellu vidiri li pisci saittari
ntra l’oru di lu suli o l’argentu di la luna!
com’è bellu vidiri milli e milli
luci quannu di stiddi si vestinu li celi!
E iddi, iddi lu vonnu spirtusari u mari
cu pezzi di ferru arrugginutu
ca fannu un rumuri di nfernu e fannu
pazzi li pisci chi si nni stannu
npaci natannu nna lu mari calmu
e chinu di culuri di sapuri d’amuri.
No, u mari nun s’hav’a spirtusari u mari.

No, u mari nun s’hav’a spirtusari u mari
è lu specchiu di l’immensitati di Diu
di Diu eternu, di lu so amuri
ca nun finisci, nun finisci mai.
È un piccatu, un piccatu murtali
sulu a pinsari di vulirlu allurdari
ncanciu d’un varrili di petroliu
ch’allorda poi li celi di l’universu.
È un piccatu, un piccatu murtali
vuliri canciari l’azzurru tersu
e limpiu di la so acqua
cu l’acqua nivura di la pici
di vuliri canciari l’oduri di mari
c’allarga lu pettu e la peddi
cu l’oduri aspru di lu petroliu
che rumpi lu cori finu a scasiddarlu.

No, u mari nun s’hav’a spirtusari u mari. 
(12 maggio 2015)

lunedì 11 gennaio 2016

Trebbo poetico: memoria di una pagina culturale fra le più alte del secolo scorso


di Giovanni Lugaresi

Trebbo Poetico: 60 anni fa a Cervia, nella sala dell’asilo comunale, Walter Della Monica introduceva, illustrando volta a volta poeti e poesie, e Toni Comello, di seguito, recitava: recitava con toni e pause e sentimenti che portavano al coinvolgimento di un uditorio abituato più alle voci stentoree dei comizianti dei vari partiti politici sempre assai polemici in Romagna, che ai toccanti accenti di una lirica del Pascoli o a quelli accorati di un Leopardi.
Prendeva avvio in quel momento un’avventura che avrebbe portato i due giovani appassionati di poesia, appunto, per le strade di tutta Italia e oltre, cioè pure all’estero, fra i nostri emigranti.
E quel 7 gennaio 1956 veniva coronato praticamente un progetto maturato nel tempo, a partire cioè dall’estate del 1953, quando il direttore del campeggio dell’Enal a Milano Marittima, Walter Della Monica aveva incontrato Toni Comello, e insieme avevano conversato di poeti e di poesia.
L’esperimento compiuto due anni dopo nello stesso campeggio davanti a un pubblico prettamente giovanile aveva dato un responso altamente positivo: l’interesse, l’entusiasmo di tutti. E allora, ecco un sogno farsi progetto, e quindi realtà nell’asilo di Cervia, per poi spiccare il volo alla conquista di un pubblico sempre più vasto, diversamente variegato, per così dire, ma sempre affascinato da quei due giovani aedi, che diedero vita, per usare le parole del poeta Giorgio Caproni al “più straordinario anacronismo del secolo”.
L’anniversario dei 60 anni da quell’evento comporta un interrogativo, oltre ad un viaggio a ritroso nel tempo.
Che cosa resta, quale retaggio, di 180 incontri da Cervia a Catania, da Torino a Tricarico, da Trieste a Fano, da Valdagno a Gradara da Bolzano a Roma, da Udine ad Acireale, da Finale Ligure a Bronte, da Albisola Marina a Caltanissetta, da Brescia a Siracusa, da Milano a Recanati, da Rapallo a Gardone, da Ravenna a Potenza (senza trascurare centri minori, paesi come Alfonsine, Castiglione, Cittadella, Conegliano, Lugo, Massa Lombarda, Faenza), con puntate oltre confine, grazie all’Enal, alla Società Dante Alighieri, ad Istituti italiani di cultura, e cioè Monaco di Baviera, Ludwisburg, Stoccarda, Rotterdam, Maastricht, Sittard, Brunssum, Leiden, L’Aja, Arnhem?
Restano centinaia di articoli di giornali e riviste, conversazioni radiofoniche e televisive, citazioni su tutti i vocabolari-dizionari della lingua italiana, in primis quello dell’Enciclopedia Treccani.
Restano le testimonianze di poeti e scrittori e giornalisti, fra i quali spiccò Ungaretti, se non altro per quella constatazione eloquentissima, emblematica che così suona: “Sono anni che non si sentiva parlare di tanto fervore per la poesia. Forse un fervore uguale non l’ho mai visto, nemmeno ai tempi del Futurismo e di Lacerba”.
Restano, poi, tre tesi di laurea nelle università di Macerata (Giovanni Sgardi), Bologna (Debora Aprigliano), Genova (Simona Poggi).
Restano, ancora, due piazze: a Cervia e a Ravenna, al Trebbo Poetico intitolate…
Resta insomma la memoria di una pagina culturale fra le più alte del secolo scorso. E uno degli esempi più significativi di come in provincia, e da due uomini di provincia (ma non affetti da provincialismo, sia chiaro!), possano nascere e svilupparsi idee, progetti di ampio respiro: un respiro, appunto, non provincialistico, ma straordinariamente coinvolgente un pubblico vario e variegato: dalle Alpi alle isole, nel segno, e con la voce della poesia, appunto.
E qui pare opportuna una digressione per rilevare come dalla provincia romagnola siano giunte fra Ottocento e Novecento, e poi per tutto il ventesimo secolo, alcune delle testimonianze culturali più alte a livello nazionale e oltre. Pensiamo a Pascoli, pensiamo ad Oriani, pensiamo al musicista Pratella; non si può non citare Renato Serra, della cui morte sul Podgora si è ricordato il centenario l’anno scorso – e quindi del fare cultura in provincia ma pensando in grande.
Come i due “giullari della poesia”, secondo la felice espressione di Sergio Zavoli, aedi moderni: Toni Comello, veneto di Mogliano, e Walter Della Monica, romagnolo di Ravenna, fecero, mettendo in repertorio i nostri grandi poeti: da San Francesco, Jacopone, Dante, Petrarca a Leopardi, Foscolo, Manzoni, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, e fino ad Ungaretti, Montale, Quasimodo, Sereni, Gatto, Betocchi, Valeri, Caproni, Scotellaro, ma anche autori d’Oltralpe, in primis Garcia Lorca.
Il Trebbo Poetico, dunque, appartiene alla storia della cultura e alla storia d’Italia tout court, per il carattere popolare che era insito nell’iniziativa, quella di considerare la poesia un bene di tutti, non riservato a determinate élite. Far sentire, far capire, alla gente le voci di autori dei quali il grande pubblico aveva magari sentito soltanto il nome. E la risposta della gente alla proposta di Comello e Della Monica fu sempre, in ogni luogo (città, paese, borgo, riunione, sala, oratorio, teatro, piazza, palestra), entusiasta, tale da attirarsi elogi a non finire dal fior fiore degli autori, dei critici, dei giornalisti, degli studiosi del tempo, di quell’arco di tempo compreso fra il 1956 e il 1960, quando l’avventura finì.
Ma c’è stato un seguito, e quale seguito, al Trebbo Poetico.
Ci riferiamo a quel Progetto Dante di Walter Della Monica (anche qui pensando in grande), che, avviato nel 1995 con la lettura completa e il commento della Divina Commedia di Vittorio Sermonti nel “bel San Francesco” ravennate, è poi proseguito con “La Divina Commedia nel mondo”, manifestazione ravennate che prosegue nel tempo, ogni mese di settembre. Sì da far conoscere la fortuna arrisa al Sommo Poeta ai quattro angoli della Terra.
Ecco, quindi, l’ombra del Trebbo Poetico proiettata nell’oggi…
Se un albero si vede dai frutti, occorre osservare che quello di 60 anni fa ha prodotto rami rigogliosi con frutti, appunto, eccellenti di cui cibarsi: cibare mente e anima.

Premio Letterario Italo-Russo


lunedì 4 gennaio 2016

Un episodio poco conosciuto, Guido Baccelli e Maria Montessori

di Lino Di Stefano

   I due personaggi – entrambi di prima grandezza – non hanno bisogno di presentazioni essendo stati, rispettivamente, un celebre ed apprezzato medico ed un noto politico e una non meno famosa Dr.ssa in medicina - la prima in Italia - neuropsichiatra infantile, pedagogista ed educatrice. Guido Baccelli (1830-1916) è stato, e rimane, un’autorità non solo nel suo campo specifico, la medicina e la chirurgia, ma anche nella ‘politikè téchne’ (la scienza politica) perché più volte deputato, dal 1974, e più volte Ministro della Pubblica Istruzione (1881-1884/ 1893-1896/ 1898-1900), nonché titolare del Dicastero dell’Agricoltura, Industria e Commercio (1901-1903).
   Cattedratico di Medicina legale e Direttore della Clinica Medica dell’Università di Roma, Guido Baccelli ha legato il suo nome a studi sulla infezione della malaria e sui sintomi dei versamenti toracici. Tra le numerose opere, ricordiamo solo le rilevanti ‘La patologia del cuore e dell’aorta’ (3 voll., 1864-1867) e le ‘Lezioni cliniche sulla malaria’ (1869). Allo scienziato italiano si devono, ancora, la costruzione del Policlinico della Capitale, i restauri del Pantheon e gli studi sul prosciugamento delle paludi pontine. Anche la festa degli alberi, porta il suo nome.
   Maria Montessori (1870-1952), è stata parimenti, e resta, un’autorità nella sua sfera d’indagine e vale a dire una neuropsichiatra infantile ed un’esperta di problemi educativi; in questa sede, accenniamo al suo metodo da lei ideato ed applicato nella Scuola ortofrenica di Roma (1899-1900), città in cui ha fondato, altresì, qualche anno dopo, la ‘Casa del bambini’ (1906) riservata ai figli delle famiglie operaie del quartiere San Lorenzo di Roma.
   La grande novità del metodo consisteva, com’è noto, nell’applicare i procedimenti didattici riservati ai fanciulli subnormali; tecniche funzionanti anche se utilizzate con i ragazzi normali. Il sistema escogitato dalla studiosa ebbe successo in tutto il mondo tant’è vero che furono aperte scuole montessoriane in India, nazione in cui risiedette per diversi anni, negli Stati Uniti, in Svezia, in Cina e in numerosi paesi europei ed extra-europei.
   Molte le sue opere, tradotte in tante lingue, delle quali ricordiamo solo alcuni titoli: ‘Il metodo della pedagogia scientifica’ (1909), ‘Manuale di pedagogia scientifica’ (1930), ‘Il segreto dell’infanzia’ (1950), ‘La mente del bambino’ (1952). Nata a Chiaravalle (Ancona) da una famiglia agiata, in seguito trasferitasi a Roma, la futura pedagogista fu iscritta dai genitori ad una scuola tecnica quando già ribollivano in lei i primi sintomi diretti a  grandi azioni.
   Immediatamente, infatti, essa avvertì i prodromi che l’avrebbero portata ad abbracciare la scienza, intesa, quest’ultima, sia ‘stricto sensu’ – in quanto intendeva iscriversi alla facoltà di Ingegneria – sia ‘lato sensu’ perché aspirava ad immatricolarsi alla facoltà di Medicina e Chirurgia per dedicarsi ‘toto corde’ alla missione per alleviare le sofferenze dell’umanità. In quel momento storico, però – siamo verso la fine dell’Ottocento – alle donne era precluso l’accesso ad alcune facoltà universitarie, ivi compresa quella menzionata.
   La futura studiosa – assurta, poi, a fama mondiale – non si perse d’animo e visto che risiedeva, ormai, nella Capitale d’Italia, chiese ed ottenne, ad onta di tante resistenze, di essere ricevuta alla Minerva dal Ministro della Pubblica Istruzione che, in quel momento, era, restandovi, con alcune interruzioni, per ben otto anni, l’illustre scienziato ed uomo politico romano Guido Baccelli le cui riserve furono non poche dato che la legge vietava l’iscrizione delle donne sia a Medicina, sia ad altre facoltà. La Montessori vinse la sua battaglia e risultò la prima donna medico d’Italia. Come afferma, al riguardo, il giornalista Giancarlo Perna, “forse l’appoggio della massoneria, di cui il babbo era adepto, l’aiutò ad ottenere l’iscrizione. Fu l’unica gonnella dell’intera facoltà romana. Il padre doveva accompagnarla all’università, perché le donne non potevano andarci da sole”.
   Continua il periodista: “Si laureò brillantemente. I giornali si buttarono sull’evento eccezionale di una ‘medichessa chirurga’. L’’Illustrazione popolare’ le dedicò la foto di copertina in cui la bella ventiseienne  appare in posa elegante” (Il Giornale, 10 dicembre 2005). Subito dopo, la neolaureata si interessò dei bambini ritardati tant’è vero che il metodo soddisfece talmente il Ministro Baccelli che questi le affidò, senza indugio, la guida dell’Istituto ortofrenico di Roma.
   Non bisogna dimenticare che la Montessori esercitò il suo magistero scientifico in pieno Positivismo allorquando, cioè, sull’esempio di Cesare Lombroso, l’attenzione dei medici era rivolta alle devianze mentali, segnatamente, dei fanciulli ritardati; il merito della studiosa consisté, appunto, nello spostare l’interesse dai ragazzi in difficoltà a quelli normali. In questa maniera, la pedagogista lasciava al fanciullo libertà di espressione delle proprie attitudini; l’insegnante, dal suo canto, faceva da guida mentre il bambino scopriva da sé il mondo circostante attraverso i sensi.
   La marchigiana fu anche fautrice dei diritti delle donne – una contestatrice e femminista, ‘ante litteram’, insomma – tant’è vero che, nel 1896, fu rappresentante, a Berlino, della deputazione italiana al Congresso mondiale sui diritti della donna presentando, altresì, una mozione per la parità dei salari; qualche anno dopo, fondò pure un’ ’Associazione della donna’ diretta all’emancipazione femminile. Maria Montessori fu, per un certo periodo, anche docente universitaria, precisamente di igiene nonché di altre discipline psicologiche.
   Siamo, esattamente, nell’anno 1900 e Luigi Pirandello, docente di Letteratura Italiana alla Facoltà di Magistero femminile dell’Università di Roma, in una lettera, dello stesso anno, ad un amico, ci rivela il seguente episodio; lagnandosi, egli, infatti, con quest’ultimo, per il trattamento economico riservato ai professori di tale Facoltà e, naturalmente, di altre, se ne esce con la seguente osservazione.
   “Le basti, infatti, sapere, che la signorina Montessori, ultima venuta, per l’insegnamento di igiene (quattro ore soltanto la settimana) ha L. 1.500: trecento più di me”; lo scrittore, titolare di cattedra, ha sicuramente ragione. La sua confessione è, ovviamente, giustificata perché, in questo periodo ed anche dopo, gli insegnanti universitari sono, effettivamente, mal remunerati quantunque lo sfogo dello scrittore esprima solo un disagio inerente ad una professione meritevole di maggiore attenzione. 
   Tre luminari, nel proprio campo d’indagine, com’è facile notare: Guido Baccelli, Maria Montessori e Luigi Pirandello, Premio Nobel, quest’ultimo, nel 1934, per la letteratura; Premio al quale fu candidata pure la pedagogista, esattamente per la pace. Ma, la studiosa marchigiana oltre che docente di igiene, all’inizio della carriera scientifica, fu parimenti assistente del Direttore della clinica psichiatrica dell’Ateneo romano avendo come collega, in particolare, Sante De Sanctis, anch’egli un’autorità nella sua disciplina e apprezzato da Sigmund Freud che lo cita nella fondamentale opera ’L‘Interpretazione dei sogni’ (1900). 

Due filastrocche di Vittorio Riera

FILASTROCCA MA CHE PALLE!

– Questo si fa, questo non si fa
non stare qui, non stare là.
Questo si tocca, questo non si tocca
e quando mangi non aprir la bocca.
Non dire mai questo mi piace
o peggio ancora questo mi spiace.
Non stare al sole, nemmeno all’ombra
se no, piccino, mamma s’adombra.
Questo puoi o non puoi mangiare
se il mal di pancia vuoi evitare.
Questo si beve e questo no
e se non m’ascolti, io te le do.
Indossa maglia, pullover, giubbotto,
guanti, calze ed anche il cappotto.
Su presto scendi, su vai a giocare
ma niente corse, niente saltare.–
– Ma mamma, ascolta, c’è tanto sole,
il prato è pieno d’erbe e viole.–
– T’ho fatto io perdinci e bacco,
tu m’appartieni come l’ombra al tacco.
Zitto, dunque, non replicare,
corri nel prato e non sudare.
(Maggio 1991)


FILASTROCCA DEL MIO RITORNO

Son tornato, miei bambini,
son tornato un po’ più vecchio,
come vino un po’ invecchiato
forte e aspro come aceto.

Spiritoso e un po’ più colto
spumeggiante nella rima
sonnecchiante sulla riva
d’un bel mare fantasioso.

Son tornato, miei bambini,
son tornato più gioioso
più focoso d’un destriero
con in groppa un bel fantino.

Sto cantando a più non posso
monti e valli valicando
vorticando nel mio cielo
rosso d’erbe e d’acque strane.

Oh! Le rane come verdi
nel pantano se ne stanno.
Come vanno lente e fiere
le lumache tutte in fila.

Infilando ad una ad una
le perline una bambina
tutta china se ne sta
coi pensieri alla sua rosa.

Senza posa è il mio sentire,
senza dire dico tutto.
Ecco il frutto tutto tondo
del mio mondo faticoso.

Ecco alfine il tempo è andato. 
Qua nel tempio tutto solo
muto parlo coi bambini
lindi e rossi di candore. 
(27.03.2000)


Quando Dorian Gray fu sul punto di convertirsi al cattolicesimo

di Luca Fumagalli 

La parabola esistenziale di Oscar Wilde fu caratterizzata da un drammatico funambolismo tra cielo e terra. Dandy e mondano, al contempo non smise mai di cercare quella scintilla di redenzione in grado di riscattare la fragile condizione umana. Trovò la tanto agognata consolazione solamente in punto di morte, quando finalmente, dopo numerosi tentativi abortiti, si convertì al cattolicesimo. Non sorprende dunque scovare nelle sue opere, anche le più “maledette”, dichiarazioni di simpatia nei confronti della Chiesa di Roma.
In questo brano, tratto da “Il ritratto di Dorian Gray”, Wilde parla della bellezza della liturgia latina. Al di là di una patina estetizzante, la descrizione che fa della Messa è una sinfonia del cuore e della mente:
«Una volta girò voce che si proponesse di passare al Cattolicesimo; e indubbiamente il rituale cattolico esercitava sempre su di lui una grande attrazione. Il sacrificio quotidiano, ben più terribile in realtà di tutti i sacrifici del mondo antico, lo commuoveva, sia per il superbo rifiuto della testimonianza dei sensi, che per la semplicità primitiva dei suoi elementi e per il “pathos” eterno della tragedia umana che tentava di simboleggiare. Gli piaceva inginocchiarsi sul freddo pavimento di marmo e seguire con lo sguardo il prete nei suoi rigidi paramenti a fiorami, mentre spostava lentamente con le mani bianche il velo del tabernacolo, oppure mentre elevava l’ostensorio ingemmato a forma di lanterna, con l’ostia sottile che, in certi momenti, si direbbe, è davvero il “panis caelestis”, il pane degli angeli, o mentre, indossando le vesti della Passione di Cristo, rompeva l’ostia dentro il calice o si batteva il petto per i propri peccati. I turiboli fumanti, che i fanciulli vestiti di trina e di scarlatto agitavano in aria simili a grandi fiori dorati, esercitavano su di lui un loro incanto sottile».