martedì 28 febbraio 2017

Il sistema democratico e l'informazione deformante che smantella la realta'

di Domenico Bonvegna

Abbiamo più volte notato come certo giornalismo, ma anche tanto intellettualismo deforma i fatti, la realtà. Spesso da quello che scrivono si deduce che vivono in un loro mondo immaginario, lontani dalle cose reali. Molti lo hanno scritto a proposito del voto della Brexit in Gran Bretagna, per le elezioni americane, ma anche per il referendum sulla riforma costituzionale in Italia, del 5 dicembre scorso. In tutti questi casi, la lettura della stragrande maggioranza dei media e degli intellettuali era completamente lontana dalla realtà, o perlomeno si era tentato di deformarla.
Peraltro qualcosa di simile avviene nel presentare i discorsi di Papa Francesco, facendolo apparire quello che non è.
In questi giorni su questo argomento ho letto un bellissimo libro, oserei dire profetico, perchè pubblicato più di quarant'anni fa. Si tratta di “L'intelligenza in pericolo di morte”, scritto da un filosofo cattolico belga, professore universitario, Marcel De Corte.
Del saggio di De Corte ci interessa soprattutto il terzo capitolo,“L'informazione deformante”, nonostante l'età, mi sembra ancora oggi attuale. Qui il professore descrive egregiamente il lavoro degli intellettuali che attraverso i mass media, i giornali, la televisione, ora potremmo aggiungere la rete internet, deformano e smantellano la realtà sociale. L'intelligenza era in pericolo di morte quarantasette anni fa, quando De Corte ha scritto il saggio, a maggior ragione è in pericolo oggi. Del libro ho letto l'edizione pubblicata nel 1973, dal mitico editore Giovanni Volpe, presentata e tradotta dal francese da Orsola Nemi. Recentemente il saggio è stato pubblicato soltanto da Effedieffe, valorosa casa editrice che però è di nicchia e quindi difficilmente raggiungerà i grandi canali di diffusione letteraria.
Oggi l'uomo è condizionato dai mass media, che sono“strumenti condizionatori”. “Disavvezzo a pensare col proprio cervello, - scrive la Nemi - egli preferisce pigramente la illusione alla realtà, quindi non è più capace di conoscere Dio, da cui ogni realtà deriva”. Pertanto, l'uomo di oggi, è “colpito, esautorato nella intelligenza, che è la sede di ogni libertà, è esposto ai pericoli di qualsiasi propaganda, vi è tanto abituato che non vede come le parole che gli vengono quotidianamente imbandite non coincidono con la realtà in cui si muove”.
Per De Corte,“l'intelligenza si è invertita. Invece di conformarsi al reale, ha voluto che il reale si conformasse alle sue ingiunzioni”. Così l'uomo immagina una società costruita da lui, che non ha più riferimenti con i principi immutabili, acquisiti per sempre dall'umanità. Così attraverso l'informazione, l'uomo diventa “padrone del suo destino collettivo: può, a suo piacimento farsi sul piano sociale, ridotto e identificato con l'economico, nell'attesa di farsi individualmente secondo la volontà propria,liberata dalle servitù della materia da una informazione esauriente”.
L'uomo con l'informazione diventa capace “di essere il suo proprio demiurgo, il fabbricatore di se medesimo, l'homo faber di se stesso”.
Il testo di de Corte è una serrata critica della società di massa e del sistema democratico moderno scaduto ormai in demagogia. Il professore francese fa leva sugli studi di Augustin Cochin, il genio francese che ha ben studiato l'azione deformante e la distruzione dell'intelligenza durante il giacobinismo della Rivoluzione Francese. Intanto si precisa che la democrazia odierna,“non ha nessuna comune misura con la democrazia del passato, con la democrazia ateniese per esempio, o con le democrazie comunali del Medio Evo, più di quanto l'abbia con la democrazia legittima descritta da Pio XII, seguendo i grandi filosofi politici del passato, o con la democrazia elvetica di oggi”.
Tuttavia per De Corte il cittadino non si comporta allo stesso modo nei due sistemi, anche se hanno lo stesso nome. Le antiche democrazie erano a misura d'uomo, qui il cittadino conosce direttamente e per esperienza i problemi che deve risolvere. Non accade allo stesso modo nelle democrazie moderne, dove“le questioni poste al cittadino sono talmente ampie e complesse che egli non può conoscerne i dati attraverso la sola fonte autentica di conoscenza: l'esperienza”.
Secondo De Corte, il cittadino dei regimi democratici moderni, assomiglia molto a un“re merovingio di cui bisogna cercare altrove il maggiordomo”. Pertanto questo cittadino,“è obbligato a ricorrere all'immagine che se ne foggia nell'interno del suo pensiero e a proiettarla nella pasta molle e amorfa di ciò che si chiama società per darle una forma”.
Ma essendo molto limitata la capacità immaginativa del cittadino si appella agli “informatori, che gli offrono modelli prefabbricati”, cioè ai giornalisti, agli intellettuali. Così il cittadino immerso nell'immaginario, per esprimere la sua volontà politica,“entra nell''isolatore' (la cabina elettorale). In pratica “è chiamato a trasformare il mentale nel sociale, immaginario nella realtà, il logico in ontologico”.
De Corte insiste nella dura critica della democrazia moderna. Per lui,“non esiste. Esistono nel nudo scenario delle democrazie, le minoranze dirigenti che conquistano lo Stato Vacante, ne occupano i posti di comando, sia direttamente, sia per interposta persona. Tali minoranze, che detengono le leve dello Stato democratico, non possono agire se non FACENDO COME SE LA DEMOCRAZIA ESISTESSE, sinceramente o o, consapevoli o no”.
Per il filosofo francese questa minoranza illuminata detiene il vero potere, che“non possono governare i cittadini se non ingannandoli e persuadendoli di detenere loro tutti i poteri, mentre sono privati del potere fondamentale di decisione e direzione che determina tutti gli altri e che possiedono solo verbalmente”.
Secondo De Corte,“in nessuno periodo della storia, il cittadino è stato sprovvisto di potere reale quanto nella democrazia moderna”. Augustin Cochin l'ha ammirabilmente dimostrato nei suoi studi per tutte quelle, società o gruppi “della Repubblica delle Lettere, Accademie, Logge”; tutte hanno lo stesso carattere: “sono egualitarie nella forma, e i loro membri fraternamente riuniti, figurano liberi, spogli di ogni aggancio, da ogni obbligo, da ogni funzione sociale effettiva”. Praticamente i membri per entrare in queste società si liberano di tutte le caratteristiche che hanno nelle loro comunità naturali: famiglia, mestiere, parrocchia, villaggio, regione. Qui in pratica non hanno“nè interessi diretti, né responsabilità impegnata nelle cose di cui parlano”. Queste associazioni hanno il solo scopo di esprimere opinioni, attraverso discussioni e voti. “Amputati da ogni effettiva relazione con le realtà sociali della vita quotidiana, costoro non possono che imporre in anticipo e senza appello, anzitutto a se stessi, e poi al pubblico che addottrinano, il punto di vista della intelligenza soggettiva, irreale[...]”. Pertanto, “in quelle città del pensiero, tutto si dice, tutto s'immagina lontano dagli esseri e dalle cose, fuori dell'esperienza, dalla tradizione, dal realismo del senso comune che impone all'intelligenza il mondo degli oggetti[...]”.
De Corte, facendo parlare sempre Cochin, afferma che in quel mondo della Rivoluzione francese, in quella“Città del pensiero”, all'essere reale e personale dell'uomo si sostituisce un essere sociale e fittizio. Così non siamo più nel mondo vero,“ma in un universo di parole, in un traffico di discorsi, di scritti”, ridicolo per un mondo reale. Anche De Corte non si meraviglia che la maggior parte dei cosiddetti ”intellettuali” siano di “sinistra”, ci si domanda perchè mai “i grandi centri d'informazione: agenzie di stampa, giornali, attualità cinematografica, radio, televisione, università, centri di ricerche, eccetera, siano imbottiti di rivoluzionari, di proseliti della sovversione o di 'simpatici' liberali, che si prestano sorridendo a fare la parte di furieri del nihilismo”. Sarebbe sorprendente il contrario. Certo esistono le eccezioni, tuttavia questi centri sono popolati di gente che non accetta la condizione umana, sono lontanissimi quanto più possibile dalla vita quotidiana degli uomini e“sono quasi tutti amputati dal rapporto fondamentale con la realtà e con il principio della realtà”.
Secondo De Corte, “la cerchia della informazione è lontanissima dalle cerchie naturali, dove si svolge la vita vera degli uomini, dove nulla accade di 'nuovo', se non l'incessante rinnovarsi della vita[...]”. De Corte è lapidario, a questo proposito, “è paradossale che le intelligenze amputate debbano essere dal 'sistema' chiamate a guidare le normali intelligenze”.
Tuttavia a questa morte delle intelligenze non si è arrivati in poco tempo, è da due secoli che si lavora per rendere le menti sradicate dalla realtà e ridurle alla pura soggettività. Ci sono mille esempi di questa operazione di sradicamento ad opera di “filosofi” che hanno minato le fondamenta dell'antico regime con la loro critica e con la informazione deformante di fatti reali. Gli informatori democratici, gli intellettuali, giornalisti, sono in stretto rapporto con le masse che informano. Praticamente lavorano su “raggruppamenti artificiali, inorganici, omogenei, ridotti ad amalgama docile e plasmabile, dispongono di un'autentica macchina capace, se maneggiata secondo le regole, di colpire le menti e farle pensare o agire come loro decidono”.
Sostanzialmente secondo De Corte è la stessa legge che resse le società di pensiero, di due secoli fa. Questa legge,“ impose uno o due macchinisti per manovrare 'la macchina' e vuole che la democrazia moderna abbia continuamente a capo informatori che martellano l'opinione amorfa e le permettano di esprimersi”.
Il tema necessita di ulteriori chiarimenti, alla prossima.

giovedì 9 febbraio 2017

A Napoli presentazione del volume "Elogio della Distinzione" di Tommaso Romano

ELOGIO DELLA DISTINZIONE
di Tommaso Romano
(ed. Fondazione Thule Cultura)


ne discutono con l'Autore
Prof. Mario Anzisi
Avv. Alessandro Sacchi


NAPOLI - Sabato 11 Febbraio, ore 17.00 - GALLERIA D'ARTE PRAC, via Nuova Pizzofalcone, 2


l'Unione Monarchica Italiana invita alla presentazione del libro

martedì 7 febbraio 2017

Molnar: i metodi dei rivoluzionari del 1789 sono quelli dei “dem” di oggi

di Antonio Pannullo

Leggendo la nuova edizione del saggio di Thomas Molnar, La Controrivoluzione – Cronaca ragionata della Rivoluzione francese (Oaks editrice), ci accorgiamo che oggi l’Italia è in una fase prerivoluzionaria. Il libro uscì nel 1969 negli Stati Uniti e nel 1970 in Italia, pubblicato da Volpe, con la prefazione di Maurice Bardèche. Questa nuova edizione è prefata dallo scrittore Giuseppe Del Ninno, che affronta la questione in chiave attualissima, sottolineando gli aspetti del saggio di Molnar che sembrano scritti per la situazione politica attuale. Soprattutto, evidenzia Del Ninno, l’importante è egemonizzare i mass media. Ed è proprio quello che Molnar denuncia nel suo scritto, raccontando con linguaggio semplicissimo e chiarissimo, come oltre due secoli fa i philosophes, gli intellettuali dell’epoca, tramite un capillare e sistematico lavoro di demolizione, riuscissero in pochi decenni a screditare la chiesa, la monarchia, la nobiltà. E senza che queste reagissero in alcun modo. Anzi, in taluni casi si adattavano al pensiero corrente, seguendo il vento, simpatizzando per la causa di coloro che erano i loro peggiori nemici. Si videro marchesi con la coccarda tricolore applaudire i rivoluzionari ed essere ghigliottinati poco dopo. È una tecnica che sarà meglio teorizzata da Marx e Lenin, e praticata durante tutto il Novecento: è la famosa storia che se si calunnia qualcuno, e se la calunnia è ripetuta più volte per un certo tempo, essa diventa verità, e come tale non più confutabile.
Attualissimo, si diceva, il saggio dello scrittore ungherese emigrato in America ed esponente della corrente conservatrice degli intellettuali del suo tempo. La rivoluzione, diceva Molnar ha una sua utopia, che diventa una religione fanatica, e i suoi partigiani non sono solo attivisti, ma dei veri e propri credenti. Per questo spesso vincono. La controrivoluzione invece, non è stata in grado di creare utopie, ma può solo appellarsi all’ordine costituito, alla civiltà, al buonsenso, merce che non ha successo tra i fanatici. Lo stiamo vedendo non solo nel Novecento, ma proprio in questi giorni con la macchina del fango scatenatasi contro il legittimo vincitore delle elezioni americane Donald Trump, metodo che peraltro è già in uso con successo contro l’altrettanto legittimo presidente russo Vladimir Putin, accusato di ogni nefandezza di stampo dittatoriale. È chiaro che Putin, Trump, come la Le Pen o altri, siano considerati dai rivoluzionari in servizio permanente effettivo come reazionari, e che come tali vadano fermati con qualunque mezzo. È altrettanto chiaro che si tratta di una moda, e anche snob, ma questa moda, attraverso il lavorìo sistematico e paziente di cui abbiamo parlato prima, ha prodotto i suoi effetti su gran parte della popolazione. Va anche considerato che, come ai tempi della Rivoluzione francese, il chaier de doléance di ogni classe sociale sia infinito e – dice Molnar – è la somma delle insoddisfazioni che porta alla rivoluzione. Al sogno, insomma, la destra, la chiesa, i conservatori, non hanno saputo far altri che opporre il senso del dovere, la diligenza, lo spirito patriottico. Troppo poco. Come dice Giuseppe Del Ninno alla fine della sua prefazione: «La conclusione ci esorta implicitamente a volare alto, quando viene sottolineato che il compito del controrivoluzionario non ha mai fine, così come la Rivoluzione non smette mai il suo lavorìo: una visione militante, di cui troppi oggi sembrano aver smarrito la capacità».
da: www.secoloditalia.it/

mercoledì 1 febbraio 2017

Gli orrori della “Shoah” e i meriti di chi vi si oppose


di Luciano Garibaldi

Il 27 gennaio abbiamo tutti ricordato, con rammarico, dolore e partecipazione, le sofferenze che la follia criminale antisemita inflisse a milioni di esseri umani condannati a pagare con inimmaginabili sofferenze e infine con la vita la loro fede religiosa. Ricordiamo dunque come ebbe inizio quella carneficina passata alla storia come la “Shoah” (in lingua ebraica, “catastrofe”).
I trasferimenti degli ebrei all’Est ebbero inizio il 16 ottobre 1939, subito dopo il crollo della Polonia, allorché venti convogli ferroviari mossero contemporaneamente da Berlino, Vienna, Praga e Colonia, diretti a Lodz. Ognuno di essi trasportava un migliaio di ebrei. Erano famiglie tedesche che avevano accettato volontariamente la proposta di trasferirsi nel ghetto della città polacca, dove – era stato raccontato loro – la vita costava meno, si trovavano facilmente casa e lavoro e vi erano meno restrizioni. Era una trappola. Una volta giunti a destinazione, gli sventurati furono costretti a vivere in media in sette in una stanza: 14 mila morirono nei primi 18 mesi.
Era stato detto loro che ognuno avrebbe potuto portare con sé 100 marchi, fino a 50 chilogrammi di bagaglio e viveri per tre giorni. Così, eccoli, curvi come bestie da soma sotto il loro carico, arrancare verso l’autocarro che li avrebbe portati alla stazione. Gli uomini avevano stivato nelle valigie e nei fagotti quanto più possibile, pur di mettere in salvo le proprie cose. I venti treni provocarono ritardi e ingorghi al traffico ferroviario militare in Polonia. Così, le SS decisero che, da quel momento in avanti, per i trasferimenti di ebrei si sarebbero usati carri-bestiame: i treni merci potevano aspettare ore e anche giorni al freddo o al caldo: non faceva differenza.
L’autorizzazione a portare con sé fino a 50 chili di bagaglio rimase in vigore anche in seguito, quando i trasferimenti non erano ormai più volontari ma obbligati e la destinazione non era più un ghetto ebraico, ma un campo di sterminio. Perché? Lo spiega perfettamente il sociologo Benedikt Kautsky, un superstite di Auschwitz: «Se le vittime avessero saputo ciò che le attendeva, sarebbe stato rallentato ed intralciato lo svolgimento delle operazioni. Ecco perché veniva loro detto soltanto che andavano verso le regioni dell’Est, per lavorare nei ghetti ebraici. In pari tempo, si consigliava loro di portare con sé il massimo possibile di dotazioni personali, data l’impossibilità di procurarsi biancheria, vestiti, vasellame, utensili, eccetera, in quelle lontane regioni. Con questo plausibile stratagemma, gli ebrei erano invogliati a portarsi dietro non solo montagne intere di indumenti, ma anche strumenti sanitari, medicinali, utensili particolari, e soprattutto valori sotto forma di divise straniere, oro, gioielli, sia apertamente, sia clandestinamente».
Léon Poliakov, nel suo fondamentale «Auschwitz», ha raccolto la testimonianza di una deportata scampata al Lager: «Appartenevo ad un gruppo di duecento detenute destinate al “Canada”. Il “Canada” era un agglomerato di trenta baracche dove venivano ammassati gli oggetti che gli internati portavano con sé, cioé quasi sempre le loro cose più care. Il nostro lavoro consisteva nel selezionare gli oggetti appartenuti a quelli che erano stati appena gasati e inceneriti. In una baracca c’era un gruppo che sceglieva esclusivamente scarpe, un altro solo vestiti da uomo, un terzo vestiti da donna, un quarto vestiti per bambini. In un’altra baracca, detta delle cibarie, ammuffivano e marcivano montagne intere di viveri, che i gasati avevano portato con sé al momento della deportazione. In un’altra baracca venivano selezionati gli oggetti di valore. Un gruppo speciale doveva smistare tra le varie baracche i vari oggetti tolti ai condannati. Io ero addetta ai vestiti da donna. I vestiti da donna erano ammassati ad una estremità della baracca e noi dovevamo farne dei pacchi da dodici pezzi, ripiegando accuratamente i vestiti e poi legando il tutto. Giornalmente partivano decine di autocarri per la consegna in Germania di quelle cose depredate. Bisognava frugare accuratamente ogni vestito alla ricerca di gioielli o di oro nascosti».
Non tutti gli ebrei credevano alla favola del trasferimento «per lavorare all’Est». Su un «trasporto» di 523 ebrei berlinesi del 3 aprile 1942, 57 non si presentarono alla partenza: si erano tolti la vita. Ogni «Transportliste» giungeva a destinazione con decine di croci segnate a matita accanto ai nomi: non erano soltanto i nomi dei morti durante il viaggio, erano anche quelli dei suicidi. Il terribile record fu raggiunto il 3 ottobre dello stesso anno 1942: 208 ebrei su 717 destinati ad Auschwitz (quasi sempre famiglie intere) preferirono darsi la morte. E non tutti i tedeschi ignoravano la sorte che attendeva gli ebrei. Domenica 11 novembre 1941, Don Lichtenberg, di 65 anni, parroco della chiesa cattolica di Sant’Edvige, a Berlino, annunciò dal pulpito di voler seguire il destino degli ebrei deportati «per poter pregare accanto a loro». Fu esaudito. Morì a Treblinka. Il 19 luglio 1944, il suo vescovo, il cardinale di Berlino Von Preysing, assolverà il colonnello Claus von Stauffenberg che, in confessione, gli aveva annunciato il suo proposito di uccidere il Führer.
Ricordiamo come si concluse il tentativo di porre fine alla follia hitleriana. Nel pomeriggio del 19 luglio 1944, Claus von Stauffenberg, nel suo ufficio di Capo di stato maggiore dell’Ersatzheer, l’Esercito territoriale, alla Bendlerstrasse, ricevette una telefonata con l’ordine di recarsi l’indomani a Rastenburg, quartier generale del Führer, per partecipare alla conferenza militare delle ore 13 e riferire sulle nuove Divisioni di Volksgrenadiere, altra carne da macello da gettare sul fronte russo. Il colonnello si mise subito al lavoro per preparare la sua relazione. Alle 20 uscì, salì in macchina e si avviò verso casa. Durante il percorso, si fermò a pregare nella chiesa cattolica di Dahlem. Esattamente dieci giorni prima si era confessato e comunicato dall’arcivescovo di Berlino, cardinale conte Von Preysing, al quale aveva preannunciato che avrebbe ucciso il Führer. Il cardinale non aveva voluto frapporre ostacoli religiosi alla sua decisione. Poiché la decisione era ormai presa. Purtroppo il tentativo fallì perché Hitler sopravvisse all’esplosione della bomba collocata sotto il tavolo delle conferenze, e diede inizio alla soppressione in massa di chi aveva aderito al complotto.
Ma non furono solo i generali ad opporsi a Hitler e alla follia antisemita. Dopo l’istituzione della dittatura (23 marzo 1933, «Ermächtigungsgesetz», legge sui pieni poteri), nonostante il regime di terrore e di violenza, si sviluppò, nei vari strati della popolazione, un’opposizione che andò dal non allineamento al segreto aiuto prestato agli ebrei perseguitati, dalla critica fino al complotto attivo. Schierata in primo piano contro il regime, la Chiesa cattolica. L’enciclica «Mit brennender Sorge» di Pio XI, del 14 marzo 1937, suonò chiara ed inequivocabile condanna del nazismo, bollato come ideologia pagana e razzista. Subito dopo la pubblicazione dell’enciclica, le associazioni cattoliche furono sciolte, i direttori delle loro riviste arrestati e sovente condannati a morte, decine di ecclesiastici arrestati con motivazioni pretestuose (processi-farsa per frodi valutarie o atti di immoralità furono imbastiti contro vescovi e semplici parroci), conventi e beni ecclesiastici confiscati, secondo un canovaccio direttamente mutuato dai giacobini della Rivoluzione francese, e fatto proprio anche dai regimi comunisti. Ciononostante, il vescovo di Münster, conte Von Galen, trovò il coraggio, nel ’41, di pronunciare un’omelia «contro le persecuzioni razziali, la folle eutanasia, gli arresti indiscriminati, la violazione dei più elementari diritti umani». Mentre gesuiti celebri come padre Delp e padre Rösch, provinciale dell’Ordine in Baviera, diventarono le guide spirituali del «Circolo di Kreisau», da dove uscirà il colonnello Von Stauffenberg.
Diversa la vicenda della Chiesa protestante, una parte della quale si era schierata fin dall’inizio col nazismo. Nel luglio ’34 si giunse all’inevitabile scissione. Si formò la chiesa nazionale dei «Deutsche Christen», che elesse il «Reichsbischof», il «vescovo del Reich», nella persona del pastore Ludwig Müller. I pastori di stirpe non ariana furono cacciati. L’«Arierparagraph» proclamava la guerra incondizionata contro gli ebrei e la «santa alleanza tra la croce uncinata e la croce di Cristo». «Noi siamo», scrisse il «Reichsbischof», «le SS di Gesù nella lotta per la distruzione dei mali fisici, sociali e spirituali della nazione». I dissidenti e gli espulsi reagirono a queste sciocchezze con un sinodo tenuto a Barmen. Fu costituita la «Bekennende Kirche» i cui capi spirituali divennero il teologo Hans Barth e i pastori Martin Niemöller, Hans Asmussen e Dietrich Bonhöffer. Pagheranno tutti con la vita, assieme ai preti e ai vescovi cattolici.
Nell’ambito della resistenza cattolica va inserita anche la commovente vicenda della «Weisse Rose» di Monaco. Nel febbraio ’43 il Gauleiter della Baviera, Paul Giesler, al quale erano state consegnate alcune delle lettere della «Weisse Rose» (le lettere della «rosa bianca», scritte dai fratelli Hans e Sophie Scholl, duplicate con il ciclostile e inviate a migliaia di tedeschi, con la denuncia dell’empietà e dei crimini nazisti), decise di affrontare i «ribelli» nel loro covo. Tenne un discorso all’Università, un discorso volutamente volgare, contenente l’invito agli studenti ad andare a combattere «anziché perdere il loro tempo sui libri», e alle studentesse «a rendersi utili, magari regalando un figlio all’anno al Terzo Reich». «Non dubito minimamente», proseguì, «che le più carine troveranno un uomo con cui accoppiarsi. Per le racchie, offro la mia scorta di SS».
Era troppo. Il Gauleiter fu coperto di fischi e le SS scaraventate a calci fuori dell’aula magna. Quel pomeriggio, diversi cortei di studenti percorsero le vie del centro, aggredendo le SS e la polizia. In serata, due Divisioni corazzate ristabilirono l’ordine a raffiche di mitraglia. I fratelli Scholl (lui venticinquenne, studente di Medicina, lei ventunenne, iscritta a Biologia), riconosciuti quali capi dell’insurrezione, furono arrestati e decapitati con una mannaia. Li seguì sulla forca l’ispiratore del gruppo, il professor Kurt Huber, titolare di Filosofia teoretica e profondamente cattolico. Nella sua ultima lettera scrisse: «La morte è la bella copia della mia vita».
da: www.riscossacristiana.it