sabato 30 settembre 2017

I sacerdoti dimenticati che dimostrarono che la Terra…si muove

di Francesco Agnoli

Se c’è un argomento ignorato dai più è quello che riguarda la storia con cui si arrivò a capire che …la Terra si muove.
Il nostro pianeta appariva agli antichi greci, pesante e goffo, rispetto agli altri. Stava al centro, immobile, non per una maggior dignità, ma al contrario, nel sistema aristotelico-tolemaico, per la sua inferiorità rispetto agli altri pianeti, lisci, perfetti, cristallini, luminosi… e in moto, secondo la figura, perfetta, del cerchio.
Questa idea aveva i suoi perchè: a prima vista la Luna e il Sole appaiono regolari, luminosi, e sembrano in moto. Difficile capire che in verità è la Terra che si muove sul proprio asse (moto di rotazione) a 1600 km all’ora e gira intorno al Sole (moto di rivoluzione), a 30 km al secondo.
Ma chi per primo propose il moto della terra?
I primi furono alcuni greci, come Aristarco di Samo, ma la loro ipotesi fu sconfitta dal parere dei più.
Bisognerà aspettare il Medioevo perchè l’idea comincia a farsi strada.
Il primo personaggio che incontriamo è un vescovo francese, Nicola di Oresme ( 1323-1382).
Egli appartiene alla scuola dei fisici dell’Università di Parigi, l’università di teologia in cui hanno insegnato anche san Tommaso e san Bonaventura. E’ colui che introduce, “sia pur in forma primordiale, l’uso delle coordinate geometriche, secondo il metodo che verrà poi detto cartesiano”. Nel suo Traictie du ciel et du monde Oresme “sosteneva e provava la possibilità di ammettere il moto diurno della Terra. Se di questa idea della rotazione terrestre non può essere considerato l’iniziatore […], ne è tuttavia il primo vero teorico, avendola mostrata con argomenti che per nettezza e sicurezza vincono quelli poi usati dallo stesso Copernico” (Goffredo Coppola, Guido Calogero, Giorgio Diaz De Santillana, voce Nicola di Oresme, Enciclopedia Italiana; James Jeans, Il cammino della scienza, Cambridge University Press-Bompiani, 1953, p. 167; Ludovico Geymonat, La realtà e il pensiero. La ricerca filosofica e scientifica, vol. I, Garzanti, 2012, p. 620).
Il secondo personaggio a proporre il moto della Terra è un altro Nicola, ed ancora un uomo di Chiesa: il cardinale Nicola Cusano. Costui, che sarà considerato da Keplero un maestro, afferma non solo che il Sole è al centro, e la Terra no, ma anche che quest’ultima si muove, anche se noi non ce ne accorgiamo.
Il terzo personaggio che si incontra studiando questo tema, è ancora un ecclesiastico (sebbene, a differenza dei precedenti, non sia sacerdote), e si chiama, anche lui, Nicola: il celebre Niccolò Copernico.
Nè Oresme, né Cusano, né Copernico, come sappiamo, riescono però a dimostrare in modo inequivocabile i moti della Terra.
Ci pensaranno altri due sacerdoti, alcuni secoli dopo.
Nel Settecento sarà il sacerdote anglicano James Bradley (1693-1762), cresciuto nella passione per le stelle sotto la guida dello zio, il reverendo James Pound, a dimostrare finalmente, con “una prova scientifica e inconfutabile”, e “una volta per tutte che la Terra si muove intorno al Sole” (Piero Bianucci, Storia sentimentale dell’astronomia, Longanesi, Milano, 2012, p.169; Amedeo Balbi, Seconda stella a destra: vite semiserie di astronomi illustri, De Agostini, 2010).
E il moto di rotazione? Ecco un altro personaggio che non ha potuto contare su un buon ufficio stampa: Giovanni Battista Guglielmini.
Siamo alla fine del Settecento e padre Giovanni Battista Guglielmini, filosofo, astronomo e sacerdote bolognese, scrive, nel 1789, le Riflessioni sopra un nuovo esperimento in prova del diurno moto della Terra e nel 1792 il De diurno Terrae motu.
Guglielmini immagina un esperimento che consiste nel far cadere dei gravi dalla cupola di San Pietro direttamente nel Santo Sepolcro, alla base dell’altare del Bernini. Chiede il permesso al cardinale Ignazio Boncompagni, segretario di Stato del papa, e lo ottiene. Per alcuni disguidi, però accade che Guglielmini decide di agire in patria, a Bologna: facendo cadere dei gravi dalla Torre degli Asinelli egli dimostra appunto che la Terra non è immobile, ma ruota su se stessa (Guido Parravicini, Galileo, RCS, Milano, 2016, p. 70; Piergiorgio Odifreddi, Come stanno le cose. Il mio Lucrezio, la mia Venere,Rizzoli, Milano, p. 74; Odifreddi definisce quella del Guglielmini “la prima prova sperimentale del fatto che la Terra gira intorno a se stessa”; Luigi Pepe, voce “Guglielmini”, Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, 2003; “Nonostante ciò e nonostante il risultato estremamente positivo, le sue conclusioni ebbero scarsissima risonanza, pur anticipando di 50 anni la celebre esperienza di Léon Foucault nel Pantheon di Parigi” http://museospecola.difa.unibo.it/italiano/sto2_16.html; JohnHeilbron, Il sole nella chiesa,Compositori, Bologna, 2005, p. 270-271
Sarà infine il francese Jean Bernard Léon Foucault (1819-1868), nel 1851, attraverso l’esperimento del Pendolo di Foucault, a confermare per la seconda volta la rotazione della Terra. L’esperimento verrà replicato per la prima volta in Italia da Padre Guido Alfani (1876-1940) in Santa Maria del Fiore a Firenze, “sfruttando l’altezza della cupola del Brunelleschi” (Walter Ferreri, Dalla terra ai confini del sistema solare, Milano, 2016, p. 11).

Riduzione di un articolo pubblicato su Il Timone

martedì 26 settembre 2017

I sacerdoti dimenticati che dimostrarono che la Terra…si muove

di Francesco Agnoli

Se c’è un argomento ignorato dai più è quello che riguarda la storia con cui si arrivò a capire che …la Terra si muove.
Il nostro pianeta appariva agli antichi greci, pesante e goffo, rispetto agli altri. Stava al centro, immobile, non per una maggior dignità, ma al contrario, nel sistema aristotelico-tolemaico, per la sua inferiorità rispetto agli altri pianeti, lisci, perfetti, cristallini, luminosi… e in moto, secondo la figura, perfetta, del cerchio.
Questa idea aveva i suoi perchè: a prima vista la Luna e il Sole appaiono regolari, luminosi, e sembrano in moto. Difficile capire che in verità è la Terra che si muove sul proprio asse (moto di rotazione) a 1600 km all’ora e gira intorno al Sole (moto di rivoluzione), a 30 km al secondo.
Ma chi per primo propose il moto della terra?
I primi furono alcuni greci, come Aristarco di Samo, ma la loro ipotesi fu sconfitta dal parere dei più.
Bisognerà aspettare il Medioevo perchè l’idea comincia a farsi strada.
Il primo personaggio che incontriamo è un vescovo francese, Nicola di Oresme ( 1323-1382).
Egli appartiene alla scuola dei fisici dell’Università di Parigi, l’università di teologia in cui hanno insegnato anche san Tommaso e san Bonaventura. E’ colui che introduce, “sia pur in forma primordiale, l’uso delle coordinate geometriche, secondo il metodo che verrà poi detto cartesiano”. Nel suo Traictie du ciel et du monde Oresme “sosteneva e provava la possibilità di ammettere il moto diurno della Terra. Se di questa idea della rotazione terrestre non può essere considerato l’iniziatore […], ne è tuttavia il primo vero teorico, avendola mostrata con argomenti che per nettezza e sicurezza vincono quelli poi usati dallo stesso Copernico” (Goffredo Coppola, Guido Calogero, Giorgio Diaz De Santillana, voce Nicola di Oresme, Enciclopedia Italiana; James Jeans, Il cammino della scienza, Cambridge University Press-Bompiani, 1953, p. 167; Ludovico Geymonat, La realtà e il pensiero. La ricerca filosofica e scientifica, vol. I, Garzanti, 2012, p. 620).
Il secondo personaggio a proporre il moto della Terra è un altro Nicola, ed ancora un uomo di Chiesa: il cardinale Nicola Cusano. Costui, che sarà considerato da Keplero un maestro, afferma non solo che il Sole è al centro, e la Terra no, ma anche che quest’ultima si muove, anche se noi non ce ne accorgiamo.
Il terzo personaggio che si incontra studiando questo tema, è ancora un ecclesiastico (sebbene, a differenza dei precedenti, non sia sacerdote), e si chiama, anche lui, Nicola: il celebre Niccolò Copernico.
Nè Oresme, né Cusano, né Copernico, come sappiamo, riescono però a dimostrare in modo inequivocabile i moti della Terra.
Ci pensaranno altri due sacerdoti, alcuni secoli dopo.
Nel Settecento sarà il sacerdote anglicano James Bradley (1693-1762), cresciuto nella passione per le stelle sotto la guida dello zio, il reverendo James Pound, a dimostrare finalmente, con “una prova scientifica e inconfutabile”, e “una volta per tutte che la Terra si muove intorno al Sole” (Piero Bianucci, Storia sentimentale dell’astronomia, Longanesi, Milano, 2012, p.169; Amedeo Balbi, Seconda stella a destra: vite semiserie di astronomi illustri, De Agostini, 2010).
E il moto di rotazione? Ecco un altro personaggio che non ha potuto contare su un buon ufficio stampa: Giovanni Battista Guglielmini.
Siamo alla fine del Settecento e padre Giovanni Battista Guglielmini, filosofo, astronomo e sacerdote bolognese, scrive, nel 1789, le Riflessioni sopra un nuovo esperimento in prova del diurno moto della Terra e nel 1792 il De diurno Terrae motu.
Guglielmini immagina un esperimento che consiste nel far cadere dei gravi dalla cupola di San Pietro direttamente nel Santo Sepolcro, alla base dell’altare del Bernini. Chiede il permesso al cardinale Ignazio Boncompagni, segretario di Stato del papa, e lo ottiene. Per alcuni disguidi, però accade che Guglielmini decide di agire in patria, a Bologna: facendo cadere dei gravi dalla Torre degli Asinelli egli dimostra appunto che la Terra non è immobile, ma ruota su se stessa (Guido Parravicini, Galileo, RCS, Milano, 2016, p. 70; Piergiorgio Odifreddi, Come stanno le cose. Il mio Lucrezio, la mia Venere,Rizzoli, Milano, p. 74; Odifreddi definisce quella del Guglielmini “la prima prova sperimentale del fatto che la Terra gira intorno a se stessa”; Luigi Pepe, voce “Guglielmini”, Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, 2003; “Nonostante ciò e nonostante il risultato estremamente positivo, le sue conclusioni ebbero scarsissima risonanza, pur anticipando di 50 anni la celebre esperienza di Léon Foucault nel Pantheon di Parigi” http://museospecola.difa.unibo.it/italiano/sto2_16.html; JohnHeilbron, Il sole nella chiesa,Compositori, Bologna, 2005, p. 270-271
Sarà infine il francese Jean Bernard Léon Foucault (1819-1868), nel 1851, attraverso l’esperimento del Pendolo di Foucault, a confermare per la seconda volta la rotazione della Terra. L’esperimento verrà replicato per la prima volta in Italia da Padre Guido Alfani (1876-1940) in Santa Maria del Fiore a Firenze, “sfruttando l’altezza della cupola del Brunelleschi” (Walter Ferreri, Dalla terra ai confini del sistema solare, Milano, 2016, p. 11).

Riduzione di un articolo pubblicato su Il Timone

lunedì 25 settembre 2017

Stato o anti-Stato? Il culmine del Quarto Stato

di Cristiano e Davide Lugli

Il tentativo di tracciare un bilancio significativo sulla nostra epoca è cosa assai ardua, se esso volesse essere fatto descrivendo per filo e per segno i passaggi che hanno operato allo sfacelo odierno, inteso da tutti i piani: spirituale anzitutto, a cui segue quello politico, economico, sociale, per confluire nel peggio, ovverosia la mancanza della semplice morale o, ancor meglio, la totale assenza di buon senso naturale. Sarebbe tuttavia stolto presumere che la mancanza di quest’ultimo sia la cosa più assurda, e questo ragionamento comporterebbe il cedimento ad un’analisi fatta con pensiero tipicamente moderno, e cioè quello che porta a salvare il salvabile, l’ultimo vagone, senza comprendere che questo è il classico principio rivoluzionario, con annessi stravolgimenti “dal basso”. Non esageriamo affatto nell’affermare che ogni tipo di cambiamento oggi viene proposto dal basso, dai sottostrati di una società amorfa nella quale il cieco guida il cieco e lo schiavo comanda l’altro schiavo. L’inversione, o meglio la sovversione, sono i capitelli portanti del pensiero collettivo, pensiero che, volente o nolente, porta i più a compiacersi del limbo rintronante verso cui tutti ci dirigiamo quotidianamente, perlomeno sonnecchiando in esso e contribuendo almeno parzialmente alla dissoluzione in atto.
L’approfondimento pur di senso generale che vorrebbe qui compiersi si concentra essenzialmente sull’idea di Stato, in senso assoluto e non relativo, superiore e sideralmente distante dunque dalla concezione che conviene all’homo odierno, sia esso politico o bassa manovalanza.
Dall’idea di Stato e dai connotati assunti da esso si può facilmente capire l’epoca in cui si vive, cosicché, per rendere chiara la nostra, sarà conveniente analizzare i passaggi da un punto di vista marxista il quale, seppur rivoltante, ha identificato con maligna astuzia i passaggi fondamentali della decadenza che potremmo tranquillamente definire “post-moderna”. È ovvio che l’esame storico di comunista memoria è qualcosa di atroce se analizzato secondo il loro punto di vista, giacché esso si rifà ad una purtroppo vera concatenazione di eventi in grado di determinare l’assetto economico, adulando il proprio trionfo nel dominio della classe lavoratrice, proletaria nel senso più inferiore del termine. I passaggi salienti apportati dall’idea marxista di Stato, non sono altro che la traccia di una regressione e della concomitante discesa del tipo di civiltà, nonché del potere politico. Il grosso problema storico-politico però, se vogliamo, consiste nella mancanza di una manovra in senso opposto da parte del pensiero di Destra – esso inteso non solo come politico, ma anzi e soprattutto come consono alla nobiltà d’animo – il quale non ha saputo inquadrare gli avvenimenti storici in uno schema di maggiore ampiezza rispetto a quelli primitivistici ed in preda al materialismo storico, di cui la feccia marxista è stata levatrice per eccellenza. Mancando una chiave interpretativa diversa, collegata ad una visione superiore della storia, metastorica, le forze infere hanno potuto agire indisturbatamente falsandola e plagiando la civiltà corrente fino ad oggi, in cui il marxismo è visto come giusto corso storico, e la vittoria della classe operaia come conquista senza precedenti.
Con questa architettonica truffa l’uomo moderno è stato reso dimentico dell’organizzazione sociale completa regnante in epoca cristiana secondo una retta gerarchia, e franata piano piano regredendo dall’uno all’altro strato gerarchico per lasciare infine spazio all’apice contrario, ad una piramide nettamente rovesciata alla cui punta del baratro si trova ciò di cui persino il marxismo non ha dato una precisa spiegazione, forse per il semplice motivo che le tappe storiche da esso tracciato sono state la semina per questo ultimo sub-strato sociale: il Quinto Stato.
Per esso e in accusa di esso non si vuole raffazzonare la stessa critica mossa da Allegri e Ciccarelli, denunciando la precarietà odierna e la presunta mancanza di “democrazia” o dintorni, quanto piuttosto tutto il contrario: l’intento è quello di presentare una visione oggettiva di questo Quinto Stato che, come detto, non conosce una vera definizione nemmeno in ambito marxista.
Per comprendere la sua struttura e prendere di conseguenza in considerazione la possibilità che esso esista, è necessario un ragguaglio in merito a quanto poco sopra detto sull’organizzazione sociale resasi manifesta in tutta l’epopea tradizionale. É testato come ogni civiltà normale strutturasse il proprio assetto attraverso quattro predominanti piani gerarchici, al massimo gradino dei quali stava la figura spirituale, il sacerdozio ed il cosiddetto “diritto dall’Alto” (o “divino”) esercitato dal Romanus Pontifex. Il susseguirsi di questo tracciato storico avallò la discesa del primato spirituale per lasciare posto a quello retto dall’aristocrazia, sviluppatasi e conclusasi nel medesimo con le grandi dinastie europee.
Il punto successivo fu cruciale e quanto mai gravoso, poiché assunse già i disvalori democratici con l’avvento della Rivoluzione Francese che, tramite il liberalismo e l’industrializzazione, impose la struttura del Terzo Stato, borghese e ricolmo dei connotati di plutocrazia e capitalismo: non solo la veridicità e virilità dell’autorità non si fonda più su criteri sovrannaturali o comunque spirituali, ma addirittura essa s’impernia sui dettami del dio danaro, andando da sé il moderno fenomeno che sancisce la dirittualità materialista del presupposto economico come padrone delle dinamiche politiche e sociali. L’immersione totale nella materia, avvalorata dall’industrialismo, sostituisce (fino ai giorni nostri) ogni legame con il sovrannaturale, cosicché i grandi capitali industriali divengono i colossi della mondialità propinata all’uomo-vittima del Terzo Stato.
Andando via via gradatamente passiamo a definire l’ultima visibile fase di questo crollo, come detto preannunciata dal filone storico tracciato dal marxismo, e cioè gli sviluppi socialisti e di basso proletariato convogliati all’interno dell’industrializzazione: era evidente che l’idea di sostentamento materialista voluto dalla borghesia determinasse una classe sociale ancora più infima in grado di soddisfare questa idea, per nutrire il decorso che a grandi e veloci passi si stava compiendo sotto gli occhi di un mondo che non godeva più di una Luce da ricercarsi nel sovrannaturale, in Dio, nella Chiesa e nei suoi Santi, ma all’interno di quel “lume intellettuale” razionalista e laicista che ha obnubilato la civiltà fino ad oggi.
Il comunismo sovietico traccia per contro l’ultima fase ribellandosi alla sua stessa madre generatrice, niente di meno che il Terzo Stato, attraverso un apparente scalzamento di quei rigori medio-borghesi che lasciano spazio alla venuta del Quarto Stato. Gli uomini diventano numeri e la massa incalza il diritto al “diritto”, alla ribellione del cosiddetto “ceto debole” pressato sotto il giogo del padrone ricco, flebile inganno di rivalsa giacché nessuno sprofondamento di strato gerarchico è mai casuale, seppur quest’ultimo del Quarto Stato è riuscito a creare un irreversibile e nefando connubio con il Terzo Stato, che produce per logica conseguenza il falso mito antagonista fra blocco russo-cinese comunista e quello statunitense liberal-capitalista, con annessi satelliti concernenti gran parte del resto del mondo. Così facendo sarebbe stato certo il dominio mondiale e il rovesciamento esiziale della gerarchia, il Quarto Stato attuando il risucchio di ciò che ancora sussisteva del mondo del Terzo Stato.
Come si è sopra detto, però, questo percorso di abissale regressione non può dichiararsi completato al trionfo del Quarto Stato perché i fenomeni esistenti oggi sembrano aver preso una traiettoria ancora più sconvolgente in seno alle idee che hanno fatto da massa di sfondamento, o se vogliamo di sprofondamento.
Di certo l’argomento del Quinto Stato a cui in questa sede facciamo riferimento era già stato toccato da qualche personaggio dello scorso secolo, ed in particolare si può segnalare Hermann Berl che a cavallo fra la prima e la seconda guerra mondiale scrisse un libro intitolato “L’avvento del Quinto Stato”. A Berl fece seguito Giulio Cesare Andrea Evola, anch’egli tentando di approfondire questo fenomeno politico-sociale. Pur volendo aprire tutte le riserve che ci si sente di aprire sui due personaggi, va detto che intercettarono un interessante passaggio, in particolare riferendoci al pensatore italiano che, al contrario di H. Berl (ossessionato da un racconto di cariche emotive in cui la storia viene interpretata in ottica regressiva), tenta di connotare la storia in modo lucido e non cedendo all’inganno marxista in cui invece cadde evidentemente il tedesco.
L’interpretazione evoliana del Quinto Stato richiederebbe delle distinzioni essenziali, come lui stesso asserì in un articolo del 1974: “Qui bisogna riferirsi soprattutto all’idea che ogni organizzazione comprende due principî elementari, forze di ordine da un lato, forze di caos dall’altro. Essa sorge da un’azione formatrice che vincola e frena in determinate strutture (entro le quali esse possono manifestarsi creativamente come un fattore dinamico) le seconde. Ebbene, quando un ciclo volge al termine, questo substrato elementare, il fondo sub-personale e quasi si potrebbe dire goethianamente “demonico” che nelle civiltà tradizionali era piegato, tenuto a freno e elevato a una legge superiore e dal naturale prestigio che rivestivano i valori spirituali, eroici e aristocratici e i rappresentanti di essi, tende a tornare allo stato libero, ad agire in modo distruttivo, a prendere il sopravvento.”
Possiamo anche risolvere la questione ciclica sostituendola con un concetto più consono e conosciuto all’Occidente, verosimilmente parlando di civiltà decaduta e giunta ad un punto di non ritorno (ché forse non è così?), non variando però il cuore del discorso e l’aspetto esasperato che ne deriva da questi tempi bui ed ultimi sotto ogni piano. Nel passaggio sopra menzionato viene fatto riferimento alle forze del caos che si muovono in senso opposto a quelle d’ordine le quali, in epoca tradizionale, contenevano gioco-forza le prime: e forse non accadeva questo nel corso della storia cristiana che si è susseguita fino ai tempi del becero illuminismo? Non era palesemente tutto contenuto in un grado d’ordine retto dal primato spirituale e regale rilasciato per comando divino da Cristo stesso alle autorità regnanti sotto il Sigillo dell’Agnello Immolato e della Sua Croce di Re? Tosto si pensi alla famosa visione di Leone XIII, e al potere infernale a cui è stato concesso di scatenarsi nell’ultimo secolo, non è forse stato auspicio della fine di questa forza d’ordine contenitiva e termine ultimo dell’impero del caos?
In questi termini possiamo senza dubbio affermare che il Quinto Stato, nella sua complessità motivazionale, è un prolungamento livellante e disumanizzante dello strato che lo precede, bestiale perché d’impronta marxista, ma allo stesso tempo imprevedibile e carico di piacere distruttivo. Questo di norma è il processo di ogni “rivoluzione”, giacché questo stato inferiore che si manifesta in tutta la sua scelleratezza è quello che corona il passaggio dall’uno all’altro, come in questo caso, esasperando la brama di eversione e di autodistruzione prima ancora della personalità, e poi della collettività.
Se il Quarto Stato prende la forma del non-Stato – il “potere” elevandosi dai bassifondi dell’umana disperazione – il Quinto Stato riveste invece le sembianze dell’anti-Stato se lo Stato lo si riconosce come realtà di ordine naturale certo, ma organizzata su modello preternaturale; esso è “anti-” (nella sua radice di “contrasto”) per eccellenza, rifiutando in toto come nei precedenti passaggi la realtà ordinata ad un Sommo Re che è Gesù Cristo. Il sintomo dell’anti-Stato è proprio il rifiuto della regalità, del comando proveniente dall’Alto dei Cieli che dispone, sempre per diritto divino, il comando della nazione. Il Quinto Stato è l’opposto e lo dimostra il sistema politico stesso, gravitante ancor più nel liquame creato dalla commistione fra marxismo e quello che insieme al liberalismo si è prodotto: la democrazia. La democrazia è una prorompente macchina di caos estremamente e minuziosamente organizzata, tanto che lo stesso Berl aveva identificato questo dinamico ossimoro di “caos organizzato”, e a nostro avviso con lungimiranza poiché quasi per un corso di naturale gravitazione, in un processo decadente è difficile che uno stadio non si concluda aprendo a ciò che appartiene ad un dominio ancora più infero, specie trattandosi di sistemi politici come nel caso che stiamo tentando di trattare nella sua complessità storica. L’attacco alla personalità poc’anzi sfiorata viene commissionato proprio dalle forze che affiorano dal basso demonizzando l’ordine sussistente, o ciò che perlomeno di esso è rimasto.
Sia chiaro che non si vuole qui enfatizzare il corso di tutta la storia come privo di problematiche, poiché per contro non è segreto che la violenza e le atrocità dei singoli siano sempre esistite; tuttavia l’esclusività della nostra epoca primeggia e rimanda a dei maligni metodi, studiati nel dettaglio, in grado di degradare gli esseri umani fino a ridurli ad essere cadaveri ambulanti, privi di volontà e zimbellati davanti ai loro stessi occhi senza essere più in grado di opporre la ben che minima resistenza, o ancora meno una reazione nonostante i falsi miti delle generazioni sovversive costituitesi negli anni ’60 – ’70. Questo genere di ribellione è anch’essa tipica dell’avvento del Quinto Stato, dove il caos spadroneggia e lascia campo alle forze selvagge le quali spazzano via per sempre l’idea di egemonikon che domava ed ordinava sensi e impulsi.
Interessante rispetto a questo senso di “ribellione” potrebbe essere un altro passaggio a cui sempre Evola allude, riferendosi al procrastinarsi dell’anti-Stato dal quarto al quinto strato, sotto l’anestetico collettivo delle generazioni emergenti:
“La rivolta può essere legittima quando si porta contro una civiltà in cui quasi nulla ha più giustificazione superiore, che è vuota e assurda, che, meccanicizzata e standardizzata, tenda essa stessa verso il sub-personale in un mondo amorfo della quantità. Ma quando si tratta di “ribelli senza bandiera”, quando la rivolta è, per così dire, scopo a se stessa, il resto facendo da pretesto, quando si accompagna a forme di scatenamento, di primitivismo, di abbandono a quel che è elementare in senso inferiore (sesso, ebrezza, violenza gratuita e spesso criminosa, esaltazione compiaciuta del volgare e dell’anarchico), allora non è azzardato stabilire un certo nesso fra questi fenomeni e gli altri che su un piano diverso attestano l’azione di forze del caos affioranti dal basso attraverso le crepe sempre più visibili dell’ordine sussistente, forze da cui sono posseduti elementi gettatisi allo sbaraglio e più o meno traumatizzati.”
A questo fa seguito il mezzo con il quale si demonizza il singolo per traumatizzare il collettivo, e questo mezzo è il “lavoro”: l’aspetto fondamentale per comprendere il turbamento dello stato psichico, o per meglio dire, psicotico, dell’individuo apportato dal Quinto Stato, è quello di entrare nel merito del “lavoro”in quanto tale. Ma questo lo approfondiremo in una seconda parte.
Ciò che non si può eludere raccogliendo il nocciolo di questa prima parte, è l’affiorante incombenza di queste forze caotiche sempre più potenti nell’ultimo stadio di cose a cui si è fatto riferimento. Esse scoccano i rintocchi delle campane infernali che Satana fa risuonare nella maggior parte delle anime, ottuse nei propri solipsismi, perse ed inebriate a causa di un’Istituzione divina che rivedrà la Sua gloria, ma ora composta da uomini non più in grado di occuparsi della loro salvezza e di quella altrui, verso cui – essi in primis – grava una enorme responsabilità.

domenica 24 settembre 2017

Meglio la metempsicosi del materialismo

“La metempsicosi non è certamente più razionale del materialismo; tuttavia, se occorresse assolutamente che una democrazia dovesse scegliere fra le due, io non esiterei affatto; e giudicherei che i suoi cittadini rischiano meno di abbrutirsi pensando che la loro anima finirà nel corpo di un maiale, che credendo di non aver anima”.

Alexis De Tocqueville, De la démocratie en Amérique, II, p. 185 (Grazie a Nicolas Bonnal).

giovedì 21 settembre 2017

La sostanza della Fede in Chesterton

di Fabio Trevisan

Con questo volume: “Chesterton – La sostanza della fede” (Edizioni Ares,pp.248, €16,00), gli autori si sono posti l’obiettivo, a distanza di ottant’anni dalla morte del grande scrittore inglese, di pubblicare una guida al “Chesterton-pensiero”, date anche le numerose controversie di interpretazione di un numero sempre più crescente di lettori. Rivelando sin dall’Introduzione l’intento, Paolo Gulisano, medico e scrittore, autore di una precedente monografia italiana su Chesterton e Belloc, e Don Daniele De Rosa hanno voluto così rendere omaggio ad un autentico Defensor Fidei, come lo insignì Pio XI nel 1936. Chesterton difese appunto, come sostenuto dagli autori: “La sostanza della fede e fece proprio il compito della Chiesa: difendere e salvare l’uomo dal nulla e dalla distruzione”. Preceduta da un Invito alla lettura di Marco Sermarini, Presidente della Società Chestertoniana Italiana, l’opera è strutturata in cinque sezioni ( Parte I, Un profilo di fondo; Parte II, L’antropologia di Chesterton; Parte III L’ecclesiologia di Chesterton; Parte IV, La dottrina sociale; Parte V, La cristologia di Chesterton), seguita da una breve conclusione, dalle essenziali note esplicative e dalla bibliografia con i titoli in italiano dei libri tradotti.


Un profilo di fondo

L’assunto iniziale viene ricondotto alla coscienza di un compito che Chesterton ebbe a vent’anni, dopo che era uscito dal tunnel della depressione, come annotava lo stesso scrittore londinese nel suo quaderno: “L’uomo è una scintilla che vola verso l’alto. Dio è eterno. Chi siamo noi, a cui è data questa coppa della vita umana, per chiedere di più? Coltiviamo la pietà e camminiamo umilmente. Che cosa è mai l’uomo perché tu lo debba considerare tanto importante? L’uomo è una stella inestinguibile. Dio si è incarnato in lui…”. Per Gilbert Keith Chesterton, come giustamente hanno osservato gli autori del saggio, diventare cattolico significò semplicemente tornare a casa. Il tema del ritorno a casa infatti è cifra significativa nell’intera sua opera, nei saggi, nei poemi epici, ad iniziare dal suo più famoso romanzo (Manalive), in cui lo stesso protagonista, Innocent Smith, intraprende un lungo cammino intorno al mondo, allegorico del ritorno dopo la caduta del peccato originale. Nel suo primo saggio (Defendant, tradotto in italiano con il titolo: “Il bello del brutto”) Chesterton non solo si era fatto difensore del vero, del bene e della verità, come hanno sottolineato gli autori, ma di tutto ciò che agli occhi del mondo risultasse banale e non degno di attenzione, dalle statuine di ceramica ai romanzi d’appendice, dai voti affrettati e insensati ad altre cose ritenute di pessimo gusto.


L’antropologia di Chesterton

Date queste precisazioni iniziali, il volume poi si dipana attraverso le pieghe dell’opera chestertoniana, rilevandone la lotta per la difesa del dogma, della tradizione, della dottrina, dell’ortodossia, come giustamente sostenuto dagli autori del saggio: “Tra le eredità che più interessano Chesterton c’è quella della visione integrale di uomo tipica della cultura medievale”. Gulisano e Don De Rosa hanno rimarcato il metodo letterario di Chesterton di procedere: il paradosso per il raggiungimento della verità, l’illuminazione razionale sorprendente che traspare dal confronto di due argomentazioni differenti. Rivolto all’uomo comune, come hanno sostenuto gli autori, il paradosso non è artifizio, espediente intellettualistico, ma luce semplice e popolare, corredata di immagini e di simboli attraenti. In questo lo scoprire la meraviglia delle cose e la bontà del creato sussistono nell’antropologia di Chesterton: “La verità è che ogni autentico apprezzamento poggia su un certo mistero di umiltà e quasi di oscurità”. Anche il confronto con il paradosso dei Santi ha indotto, come hanno suggerito gli autori, a far sì che Chesterton condividesse con l’Aquinate il primato dell’essere, perché esso proviene dalla mente creatrice di Dio. Notevole considerazione e meritevole di ulteriori approfondimenti è il collegamento dell’immaginazione chestertoniana (Chesterton oltre che essere scrittore amava dipingere) con ciò che S.Tommaso chiamava conversio ad phantasmata, la conversione degli oggetti percepiti in immagini custodite nell’immaginazione.


L’ecclesiologia di Chesterton e la Dottrina sociale

Nella III parte del saggio, L’ecclesiologia di Chesterton, gli autori hanno sottolineato acutamente l’impatto del pensiero sulla realtà: “Manomettere qualche dogma teologico che riguarda la Trinità o Cristo stesso ha delle ripercussioni profonde sulla vita concreta e sociale dell’uomo” , cogliendo l’invito chestertoniano a entrare nella concezione sacramentale della realtà tipica della Chiesa cattolica, in particolar modo rinvenendola nell’Eucaristia, una realtà visibile, materiale, che rende concreto l’invisibile. Nella quarta parte, La Dottrina sociale, Gulisano e Don De Rosa hanno sostenuto giustamente la grande attualità dell’opera chestertoniana, in particolare in difesa della famiglia, al punto da suggerire un simpatico appellativo: Defensor Familiae. La difesa della legge naturale unita alle battaglie contro il divorzio e l’eugenetica sono state pienamente collocate all’interno della salvaguardia della ragione e della fede. Il matrimonio e la famiglia sono stati inseriti in un contesto storico e sopranaturale più ampio: “La famiglia è la più naturale e ancestrale società umana, inscritta nell’essere umano, che nessuna filosofia di governo riuscirà a cambiare”. Bene hanno fatto gli autori a evidenziare, con Chesterton e l’amico Hilaire Belloc, l’influsso nefasto della Riforma protestante in Inghilterra: “Enrico VIII non solo separò l’Inghilterra dall’Europa, ma, e ancora più importante, la separò da se stessa, dalla propria storia, dalla propria tradizione”. Molto spazio nel saggio è stato opportunamente concesso al Distributismo, ossia a quella visione cattolica (ispirata dalla lettura della Rerum novarum del 1891 di Leone XIII) che intendeva proteggere la famiglia e la piccola proprietà privata, condannando sia il capitalismo sia il comunismo.


La cristologia e l’attualità di Chesterton

Nell’ultima parte, La cristologia di Chesterton, gli autori hanno evidenziato con opportune e calibrate citazioni il massimo del paradosso, il paradosso realizzato in Cristo: l’Essere divino nella culla; hanno saputo leggere, con Chesterton, nei Magi la rappresentazione di tutto l’universo dei veri sapienti di ogni tempo alla ricerca della verità. Il volume offre così al lettore un panorama abbastanza esaustivo dell’intera grande opera chestertoniana (unico rammarico, la mancata citazione di versi fondamentali di quell’immenso poema epico che è La ballata del cavallo bianco del 1911), sottolineando alcune note dominanti come il cammino (il ritorno a casa), l’ortodossia, il paradosso, l’uomo comune. Nella Conclusione viene riassunto l’intento, che è quello di iniziare un percorso di approfondimento sull’intera opera chestertoniana. Come hanno colto Paolo Gulisano e Don Daniele de Rosa nel loro arduo impegno di rivitalizzare la conoscenza di questo grande uomo e scrittore inglese, il suo pensiero e la sua scrittura sono una perfetta miscela di intelligenza, ragionevolezza, umorismo, senso del sacro e fede profonda, in sintesi amore per la sostanza della Fede…”. Un saggio da leggere e meditare con attenzione, preferibilmente attraverso i testi dello stesso Gilbert Keith Chesterton per poter cogliere gli esatti rimandi, le sollecitazioni e le sane provocazioni.

da: www.riscossacristiana.it

martedì 19 settembre 2017

Premio Francesco Carbone - Experimenta, Domenica 24 Settembre, alla Real Casina Borbonica di Caccia di Ficuzza



GIURIA DEL PREMIO

Vincenzo Viscardi - Presidente dell’Istituzione Francesco Carbone
Aldo Gerbino - Critico letterario e d’arte contemporanea
Francesco Marcello Scorsone - Presidente dell’Associazione Studio 71
Vinny Scorsone - Storico e critico d’arte


I PREMIATI

Liceo Artistico “Eustachio Catalano” - Liceo Artistico
Tiziana Viola Massa - pittrice
Museo Epicentro - di Nino Abbate
Tommaso Romano - poeta, editore, scrittore
Gonzalo Alvarez Garcia - critico d’arte e letterario
Annamaria Amitrano - antropologa
Giuseppe Giuffrida - industriale e operatore culturale
Mario Lo Coco - ceramista e scultore
Emanuele India - artista
Gaetano Ginex - architetto progettista
Ciro Spataro - politico e operatore culturale
Filippo Panseca - premio speciale Experimenta 2017, sperimetatore e innovatore  nell’ambito della ricerca nelle arti contemporanee



mercoledì 13 settembre 2017

Chesterton, Belloc e… Baring: quando ci si scorda del terzo moschettiere

di Luca Fumagalli

Nella National Portrait Gallery di Londra vi è un quadro di Henry James Gunn (Conversation Piece, 1932) che rappresenta tre scrittori cattolici, due seduti a un tavolo, il terzo in piedi dietro di loro. La corpulenta figura sulla sinistra, curva a disegnare qualcosa su un foglio, è quella riconoscibilissima di Gilbert Keith Chesterton. Sulla destra, appoggiato al tavolo e intento a osservare l’amico al lavoro, siede invece Hilaire Belloc. Se questi due autori sono più o meno noti ai lettori appassionati di cose inglesi, non così l’uomo in piedi, un gentleman calvo, sigaretta in mano, i cui baffetti ben curati gli donano una certa aria signorile, accentuata dall’altezza. Si tratta di Maurice Baring, un brillante romanziere oggi dimenticato.
Il destino di Baring è quello che accomuna tanti uomini di lettere della prima metà del XX secolo, specie quelli che in vita godettero di un vasto consenso di pubblico e critica. Anche se il suo nome lo si può trovare citato nella corrispondenza di illustri conoscenti quali Evelyn Waugh, Lady Diana Cooper e Max Beerbohm, Baring rimane un personaggio marginale che, quando non completamente obliato, brilla più per la vicinanza ai protagonisti della vita culturale inglese del suo tempo che per meriti propri. Del resto anche in Italia, ad esclusione forse di qualche chincaglieria dei bei tempi andati, dei libri di Baring non vi è traccia in nessun catalogo. È un’ingiustizia a cui, si spera, il tempo clemente saprà porre rimedio.
Nato nel 1874 da una ricca famiglia di banchieri, al giovane Maurice furono concessi tutti i vantaggi di una condizione agiata, compresa la possibilità di frequentare le migliori scuole del paese. Dopo Eton andò a Cambridge, dove dimostrò una straordinaria attitudine per le lingue che lo portò a tentare la carriera diplomatica. Superò gli esami a Londra solo al terzo tentativo, interessato più che altro a godersi la vita mondana della capitale imperiale. Il teatro era la sua vera passione. Ammirava in particolare Sarah Bernhardt, la grande attrice che già aveva fatto innamorare Oscar Wilde. Per il resto era tutto feste e bisbocce. Problemi economici, d’altronde, non ce n’erano: il padre, Lord Revelstoke, era generoso con le sue mance, e anche quando più tardi venne a mancare, il fratello John, erede dell’impero bancario famigliare, gli garantì sempre un appannaggio mensile.
Per uno come Baring, animato da una fanciullezza dello spirito che lo rendeva leggero e solare, facile agli scherzi, il lavoro in diplomazia non era il più indicato. Dopo una breve parentesi a Parigi, Copenaghen e Roma, nel 1904 decise quindi di mollare tutto e di dedicare la sua esistenza interamente alla scrittura.
Quando giunse in Russia, impegnato come corrispondente al fronte durante il conflitto russo-giapponese, Baring si trovò immerso in un mondo vasto, misterioso, che subito lo attrasse e, alla lunga, lo conquistò. Imparò la lingua e iniziò a tradurre i classici di una letteratura che, all’epoca, era pressoché sconosciuta in Occidente. L’influenza di Anton Čechov riecheggia nello stile naturale dell’inglese, che tornò nella terra degli zar numerose volte, visitandola in lungo e in largo.
Nel frattempo, complice la ben nota affabilità, il cerchio delle amicizie di Baring in Inghilterra andava via via espandendosi. Nell’estate del 1908 insieme a Belloc e Raymond Asquith diede il via a un nuovo giornale, il «North Street Gazette», che purtroppo durò un solo numero. Dalle sue ceneri nacque l’«Eye Witness», una testata coraggiosa, votata al giornalismo d’inchiesta (più tardi mutò nome in «New Witness»). Alla direzione furono impegnati prima Belloc e poi Cecil Chesterton.
Tra i nuovi amici di Baring non poteva mancare G. K. Chesterton, un uomo di cui apprezzava soprattutto la grande onestà intellettuale. Con lui trascorse momenti indimenticabili. Il confronto tra i due, sempre profondo e sincero, era un alternarsi di birre e risate. Gli argomenti delle conversazioni spaziavano dall’arte alla politica, dalla letteratura alla religione, ed è certo che dietro la conversione di Baring al cattolicesimo, avvenuta nel 1909, tanto Chesterton quanto Belloc abbiano giocato un ruolo di primo piano.
Nei voluminosi quaderni che Baring compilò per tutta la vita con precisione maniacale – così come nell’autobiografia The Puppet Show of Memory (1922) – vi sono diversi appunti a proposito del suo ingresso nella Chiesa di Roma. In mezzo ai disegni, alle recensioni e alle fotografie che trovano spazio tra le pagine scarabocchiate d’inchiostro, molti passaggi ripercorrono le ragioni di un gesto che l’inglese non esitò a definire «l’unica azione di cui sicuramente non mi pentirò mai».
Fu solo al termine del primo conflitto mondiale che Baring poté finalmente affiancare alla carriera di giornalista e critico quella di scrittore. Nel complesso diede alle stampe qualcosa come cinquanta libri, tra romanzi, testi teatrali, volumi di poesie, saggi e racconti. Ogni sua pubblicazione venne generalmente accolta con favore e illustri contemporanei come mons. Ronald Knox e François Mauriac furono tra i più entusiasti ammiratori della sua opera. Solo Virginia Woolf accennò a qualche riserva, ma la sua opinione, per quanto profetica, rimase tuttavia isolata.
I romanzi di Baring, i più famosi dei quali sono C (1924), Cat’s Cradle (1925) e The Coat without Seam (1929), rivelano un approccio religioso alla vita che vira verso lo struggente, presentando storie d’amore infelici, con quel senso di lacrimae rerum che rende l’esistenza dei personaggi al limite dell’intollerabile. Le trame sono complicate e spesso sembrano non portare a nulla, mentre i protagonisti si muovono all’interno di una fitta rete di relazioni che ha la consistenza del sogno (al pari di ogni vana ambizione sociale e sentimentale, destinata a rimanere tale). L’imperfezione dell’uomo, con tutto quello che ne consegue di bene e di male, è la vera cifra distintiva dei suoi racconti, che Ethel Smyth, non a caso, giudicò alla stregua di lavori teologici. Per Chesterton, invece, i libri dell’amico rappresentavano un provvidenziale salto di qualità verso il realismo – nel senso più profondo e pieno del termine – purtroppo assente in molta letteratura cattolica coeva, ottusamente ancorata a un romanticismo che appariva ormai fuori luogo. Fu forse questo uno dei motivi per cui i suoi lavori vennero molto apprezzati anche in Francia.
Sfortunatamente la popolarità non tardò a presentare il conto a Baring: vittima del morbo di Parkinson, trascorse gli ultimi anni che gli restavano su questa terra, dal 1936 al 1945, nella quasi immobilità. Non avendo moglie, poté contare solo sull’aiuto degli amici che si fecero letteralmente in quattro per assisterlo. La compagnia del canarino Dempsey fu l’unica consolazione per un vecchio che vedeva intorno a sé l’amata Europa estinguersi tra le fiamme del secondo conflitto mondiale. Eppure non c’è da dubitare che la Fede bastò a garantire un lieto fine alla sua vita.
da: www.radiospada.org

martedì 5 settembre 2017

“Cosmopolis”: l’arte di vivere all’epoca dell’imprevisto

di Luca Fumagalli

Un uomo e una limousine. A David Cronenberg non serve altro (o quasi) per imbastire il suo personale affresco della vita postmoderna. Cosmopolis (2012), film tratto dall’omonimo romanzo di Don De Lillo, è una rivisitazione dell’Ulisse di Joyce, l’avventura di un giorno che diventa metafora della condizione umana.
Il protagonista è il ventottenne miliardario Eric Packer, genio della finanza. Grazie alle sue brillanti doti è riuscito in poco tempo a creare un’impresa di successo, con numerosi dipendenti e un patrimonio da capogiro. La sua vita, caratterizzata da un routine puntigliosa, viene improvvisamente sconvolta da un investimento sbagliato che rischia di far affondare il suo impero. Il giovane, al primo errore in carriera, è turbato. Decide così di raggiungere l’altra parte della città, dove si trova il vecchio parrucchiere di fiducia, per un rilassante taglio di capelli. La limousine, però, procede a passo d’uomo: le strade sono congestionate a causa della visita del presidente degli Stati Uniti e, a complicare ulteriormente il tragitto di Packer, oltre a una manifestazione politica, la guardia del corpo lo informa che qualcuno è sulle sue tracce per ucciderlo.
Cosmopolis è un film di rara potenza visiva, che sfrutta i pochi mezzi a disposizione a favore di una sceneggiatura fitta di dialoghi. Quasi tutta la pellicola è girata all’interno della limousine, una sorta di casa mobile dove Packer incontra i personaggi più improbabili e in cui, ogni giorno, un medico è fatto salire per effettuargli una colonscopia (il ragazzo è infatti ossessionato dalla sua prostata asimmetrica e teme il tumore).
Robert Pattinson, svestiti i panni del vampiro di Twilight, si dimostra un attore di talento. Il suo Packer, monoespressivo e apatico, tanto da non sembrare neanche un essere umano, svela allo spettatore una realtà in cui i rapporti interpersonali sono semplicemente impossibili. L’egoismo, il desiderio di consumare l’altro per i propri piaceri edonistici, riduce le relazioni a uno sfregamento di corpi, a violenza o a colloqui privi di reale confronto, più che altro monologhi scaturiti dalle pance di spiriti misantropi.
Ne mondo di Cosmopolis non esiste vero appagamento. La noia di vivere si manifesta per la prima volta al protagonista nella forma dell’imprevisto: il rischio del tracollo finanziario è per lui una rivelazione provvidenziale. In altre parole, si rende improvvisamente conto di come l’esistenza che ha condotto fino a quel momento, per quanto piena di successi, sia in realtà la caricatura della vita, uno stanco trascinarsi tra un appetito e l’altro, esattamente come i topi che i contestatori gettano contro la sua automobile. Anche il sesso – nel film sono presenti un paio di scene che, se si vuole, si possono tranquillamente saltare – non ha nulla di esaltante, è solo una fuga provvisoria dagli affanni, è una sospensione del tempo che non appaga in alcun modo.
A Packer viene offerta dal destino la possibilità di cambiare. Lui, che è emblema di quei potenti tanto odiati che tengono per il guinzaglio il pianeta, si sgonfia come un palloncino. Il viaggio in auto è quindi emblema di un cammino di rigenerazione i cui esiti, però, sono tutt’altro che certi. Il protagonista cambia, anche fisicamente, nei vestiti, così come mutano i legami con la realtà esterna. Tutto sta nel vedere se Packer sarà in grado di portare alle estreme conseguenze le scelte maturate, quel nuovo sguardo “asimmetrico” – come la prostata e l’incompiuto taglio di capelli – che ha appena scoperto.
Cosmopolis, col suo sangue e il suo dolore, può piacere oppure no, ma certamente non esiste un film in grado di raccontare con altrettanta efficacia il mondo d’oggi, un mondo abitato da fantasmi che hanno smerciato volentieri la propria anima per paura di un imprevisto. Meglio essere un nulla ubriaco di futilità piuttosto che ambire a diventare qualcosa, qualcuno: è questo il più grande paradosso del tempo presente.
da: www.radiospada.org

lunedì 4 settembre 2017

La vita felice secondo S. Agostino

di Lino Di Stefano

E’ sempre piacevole ed istruttivo immergersi nelle opere di S. Agostino – specialmente in quelle scritte in dialogo – sicché anche in tale occasione il Santo di Ippona non delude le attese dopo la riedizione in traduzione italiana di un’operetta che proprio per la sua mole teologico-speculativa offre, se ve ne fosse bisogno, la conferma della grandezza dell’uomo, del vescovo, del pensatore e – pregio non secondario – dello scrittore.
Redatto nel 386 d.C., il ‘De beata vita’ affronta, in forma dialogica, il problema della beatitudine del vivere; questione già in parte esaminata nel ‘Contra Academicos’ dello stesso anno, ma messa a fuoco con più precisione in quest’operetta disponibile in traduzione italiana a cura dell’Editrice ‘Il Leone Verde’ di Torino col titolo ‘La vita felice’.
E’ il medesimo Agostino ad informarci, nel prologo, del fine e del contenuto del dialogo – la felicità, cioè, concepita, egli scrive, come “dono di Dio” – dei giorni della discussione, il 13-14-15 novembre del 386, degli interlocutori Navigio, suo fratello, Trigezio e Licenzio, suoi concittadini e discepoli, Lartidiano e Rustico, suoi cugini, Adeodato, suo figlio, e, infine, Monica, sua madre.
Alla quale, parole di Agostino, “sono convinto si deve tutto il merito per ciò che oggi io sono” sicché ne viene fuori un piccolo capolavoro di lingua e di filosofia. Per quanto concerne i personaggi, due di essi, Trigezio e Licenzio, sono i protagonisti anche del ‘Contra Academicos’ sullo sfondo di un medesimo scenario: Cassicìaco, in Brianza.
Siamo, per quanto riguarda l’inizio del dibattito, alle Idi di novembre, giorno genetliaco del retore e pensatore di Tagaste, e il confronto andrà avanti per altri due giorni sotto la sapiente ed accorta regia di Agostino il quale si muove, ‘more platonico’, non solo nella conduzione colloquiale, sempre serrata e drammatica, ma pure nella sostanza data la cadenza dell’opera, speculativa e teologica.
Anche l’’incipit’ del dialogo risulta icastico ed incisivo, visto il modo in cui il filosofo africano entra, senza tanti preamboli – anche se il libro, dedicato al nobile e console Teodoro – ‘in medias res’: ”Vi sembra evidente che noi siamo composti di anima e di corpo?”.
Ragion per cui, se nel ‘Contra Academicos’ si discute, in parte, dell’argomento della felicità e pure della sapienza – ciceronianamente definita “rerum divinarum et humanarum scientia” – nel ‘De beata vita’ la problematica è, appunto, quella felicità intesa come genuino nutrimento dell’anima; Monica, ad esempio, partecipa attivamente alla discussione con interventi puntuali e pieni di buon senso.
A questo punto, dopo il giudizio di Trigezio – secondo la quale “chi vive bene possiede Dio e lo ha favorevole, chi vive male ha Dio, ma contrario” – le opinioni sembrano collimare sull’osservazione di Monica secondo cui “l’infelicità non è altro che indigenza” considerato, altresì, riassume Agostino, che anche la stoltezza è indigenza e viceversa.
Ma, siccome il termine ‘indigenza’ è troppo simile a ‘povertà’, l’Ipponate propone di trovare una voce opposta a indigenza e, appellandosi a Sallustio, che egli definisce “attentissimo conoscitore della lingua”, lo rinviene nella parola ‘opulenza’ sebbene vada bene anche il vocabolo ‘pienezza’ proposto da Licenzio.
Dopo tali mirabili espressioni, la madre del filosofo pone il suggello definitivo alla discussione, confermando che la vita felice è perfetta allorquando è illuminata – così essa si esprime – da “una salda fede, una speranza alacre e una carità ardente”.

da: www.riscossacristiana.it

sabato 2 settembre 2017

L’Assunzione come anti-apocatastasi

di Giuliano Zoroddu

Qualche anno fa per la festa dell’Assunzione mi capitò di ascoltare una omelia che, per esser clementi, dirò bizzarra. Il sacerdote commentava il noto passo dell’Apocalisse “Signum magnum appáruit in coelo: Múlier amicta sole, et luna sub pédibus eius, et in cápite eius coróna stellárum duódecim” (XII, 1), che, anche nel nuovo rito, fa da antifona d’introito alla Messa dell’Assunta. Questi, lungi da qualsiasi interpretazione sia ecclesiologica sia mariologica della “Mulier”, affermava con una certa compiacenza che, al di là delle predette interpretazioni patristiche, ciò che l’Apostolo Giovanni aveva visto era nientemeno che l’Umanità che, alla fine dei tempi, tutta entrerà nella gloria del Cielo.
Ora noi sappiamo che alla fine dei tempi vi sarà il Giudizio nel quale Cristo Signore, attorniato dal senato apostolico, separerà i buoni dai cattivi, accogliendo i primi nell’amplesso del Paradiso e scacciando i secondi fra i tormenti dell’Inferno. Non tutti dunque son i salvati, ma molti: “Multi sunt vocati, pauci vero electi” (Matth. XXII, 14). Sostenere il contrario e postulare anche la reintegrazione di Satana e dei suoi Angeli fu l’errore di Origene Adamanzio, il grande e dotto presbitero alessandrino vissuto tra il 185 e il 254, il quale sosteneva “che la bontà di Dio, attraverso la mediazione di Cristo, porterà tutte le creature ad una stessa fine” (De principiis, I, IV, 1-3). E questa sentenza, che fu condannata formalmente nel Concilio Costantinopolitano II del 553: “Se qualcuno dice o pensa che il castigo dei demoni e degli uomini empi è temporaneo o che esso avrà fine dopo un certo tempo, cioè ci sarà un ristabilimento (apocatastasi) dei demoni o degli uomini empi, sia anatema” (Can. IX, DS 411), riappare oggigiorno nella sua forma deteriore e becera che è la “misericordina” e il pensiero connessovi, cioè in quel guardare il mondo “un po’ come Dio stesso guardò dopo la creazione la stupenda e sconfinata opera sua (prima del peccato originale però!) ... con immensa ammirazione, con grande rispetto, con materna simpatia, con generoso amore”, non chiudendo gli occhi sulle miserie e sui peccati umani, ma guardandoli “con accresciuto amore, come il medico guarda l’ammalato, come il Samaritano il disgraziato lasciato ferito e semivivo sul sentiero di Gerico”, con “volto di Madre amante e perdonante” . Tutte cose “riscoperte” dalla Chiesa nel Concilio e grazie al Concilio: i virgolettati infatti son tratti dal discorso che Paolo VI, tutto ottimismo e simpatia immensa per l’umanesimo laico, rivolse al patriziato e alla nobiltà romana il 13 gennaio 1966. Evidentemente Papa Francesco non s’è inventato nulla!
Ma contro questi perniciosi errori, la cui confutazione possiamo leggere per esempio nel libro XI del De civitate Dei contra paganos del sommo Agostino; contro questo neoorigenismo modernista, ci viene in soccorso la verità consolante dell’Assunzione della Vergine Santissima. Maria che entra in Paradiso con la sua anima e col suo proprio corpo carneo rivestito d'incorruttibilità ed immortalità, ci predica la verità di fede che se è vero che Gesù Cristo è morto per riscattare dalla potestà del demonio tutto il genere umano morto in Adamo, la salvezza si applica non a tutti, ma a molti, cioè a coloro che “sunt Christi, qui in adventu eius credidérunt” (1Cor XV, 23) come ci fa leggere la Santa Chiesa nel Mattutino di oggi. L’Assunta ci rammenta che il Figlio di Dio non si è unito “con l’Incarnazione in un certo modo ad ogni uomo” (Gaudium et spes, 22), che Cristo non è “in qualche modo unito con l’uomo - ciascun uomo senza eccezione alcuna - anche quando l’uomo non è di ciò consapevole” (Redemptor hominis, 14. Vedi anche Dives in misericordia), che non ha assunto in sé tutto il creato (Dominum et vivificantem, Laudato sì): ma che il Verbo suo Figlio, al quale ella fu “arcanamente unita ... fin da tutta l'eternità ‘con uno stesso decreto’ (Pio IX, Ineffabilis Deus) di predestinazione” (Pio XII, Munificentissimus Deus), è unito solamente a coloro che volontariamente compiono la sua volontà, vivono su questa terra “ad superna semper inténti” (Orazione colletta).
Per questo quando alla fine del mondo i morti risorgeranno “cum suis propriis corporibus ... quae nunc gestant” (Conc. Lat. IV, Cap. I, DS 801), la Giustizia misericordiosa farà sì che solo le pecorelle di destra, l’umanità santa e salvata, seguiranno la sorte dell'Assunta, mentre i capri di sinistra, la massa dei dannati, andranno in Inferno, per esser dannato nel corpo e nell'anima. A noi la scelta in questa vita: imitare Maria che ci porta a Cristo o il Diavolo che ci perde, soprattutto ingannandoci con false speranze di misericordia (Cfr. Sant’Alfonso Maria de Liguori, Apparecchio alla morte, XVI-XVII). L’augurio in questa festività agostana, che è la Pasqua di Maria, è quello che traiamo dal sublime Officio Divino dell’Assunta e cioè che possiamo sempre correre “dietro ai profumi degli unguenti” (Terza antifona delle Lodi e dei Vespri) della Madonna per poterla un giorno vedere “coronata sul celeste trono alla destra del Figlio” (Seconda antifona delle Lodi e dei Vespri) e con lei bearci in eterno della visione dell’Augusta Trinità.
da: www.radiospada.org

Presentazione del Volume di Carmelo Fucarino, venerdì 15 Settembre a Palazzo delle Aquile


Salvare l’Africa con l’Africa, non con il buonismo ideologico

di Francesco Agnoli

Di ritorno dalle vacanze, apro la cassetta della posta e trovo una serie di riviste cui sono abbonato, o che mi inviano gratuitamente: Etiopia chiama; Aiuto alla Chiesa che soffre; Medicina & Missioni.
Si occupano tutte di Africa e di Terzo Mondo ed invitano ad adottare bambini a distanza, a finanziare la ricostruzione di chiese e ospedali distrutti in Egitto, Iraq, Medio Oriente, oppure, come l’ultima citata, raccontano la vita dei medici che prestano lavoro gratuito in paesi in via di sviluppo.
Questo perchè il mondo cattolico ha a cuore i poveri, anche lontani. La missione è sempre stata questo: annuncio della Buona Novella, ed aiuto allo sviluppo, in tutti i sensi. A casa loro. Lì dove i popoli vivono, dove hanno le proprie radici, adeguandosi per quanto possibile ad usi e costumi locali, almeno a quelli non in contraddizione con lo spirito evangelico.
Nei secoli i missionari hanno sradicato, dove sono riusciti, usanze inique legate alle religioni tribali: il ricorso abituale della vendetta; i sacrifici umani; la magia e la stregoneria; la poligamia…
Ma non hanno mai ritenuto di dover imporre lingua, usi e costumi occidentali, convintissimi che se il buon Dio ha permesso l’esistenza di popoli, lingue, culture diverse, c’è in questo una ricchezza insostituibile.
Ricordo, quando ero piccolo, un frate francescano trentino che raccoglieva l’elemosina per portare soldi in Etiopia. Girava con il bastone, i sandali e la bisaccia; il suo volto emaciato, i suoi occhi dolci e mansueti parlavano della sua profonda Carità.
I miei genitori ci insegnavano a saltare qualche volta il gelato, a fare qualche fioretto: i soldi risparmiati, ci dicevano, li diamo al frate, e aiutiamo un bambino povero, a casa sua.
Da grande mi sono trovato ad avere amici che hanno adottato dei bambini, sempre in Etiopia. Mi hanno raccontato che per ogni bambino concesso in adozione, e quindi destinato a lasciare il suo paese, il governo etiope chiede alle associazioni di carità un certo numero di adozioni a distanza. Questo perchè un paese non può privarsi dei suoi giovani: sono il suo futuro. Spinto da questi amici, per alcuni anni ho invitato i miei alunni a rinunciare a qualcosa, per adottare a distanza un bambino etiope. Per dargli un futuro migliore nella sua terra, vicino ai suoi cari, là dove dovrà un giorno essere protagonista della vita della sua comunità.
E dunque? Dunque viene da sorridere a sentire Matteo Renzi che declama: “Aiutiamoli a casa loro”. Lo dice adesso, con un po’ di ritardo, dopo aver detto il contrario per molto tempo, senza risultare credibile. L’uomo è così: rende stupide e intollerabili anche le frasi intelligenti. Saranno il tono, la mimica, la fiducia che ispira in chi lo ascolta quando parla.
Però, sì, “aiutiamoli a casa loro” non solo è un concetto intelligente, ma è anche molto cristiano. Molto rispettoso della varietà e della ricchezza del mondo, delle culture, delle patrie.
Proverò a dirlo con altre parole. Quelle utilizzate dall’uomo che più di tutti ha fatto per l’Africa, portandovi Vangelo, scuole, ospedali, università e molto altro: san Daniele Comboni.
Lui aveva un motto preciso, ricordato recentemente anche dal cardinale africano Robert Sarah: “salvare l’Africa con l’Africa“.
Lo espresse nel suo celebre “Piano per la rigenerazione dell’Africa con l’Africa“, presentato nel 1864 al Prefetto di Propaganda Fide, il Cardinale Alessandro Barnabò. In esso invitava tra l’altro a istituire “scuole per formare maestri neri, scuole per artisti, virtuosi e abili agricoltori, medici, infermieri, falegnami”; invitava a costruire dove possibile “piccole università teologiche e scientifiche” per creare una classe dirigente africana formata nel campo “religioso, civile, economico”.
Ma Comboni era un missionario vero, pronto ad affrontare interminabili viaggi, fiere, predoni, malattie…non un opinionista dell’accoglienza con la tastiera, nè una tonaca ideologizzata, nè un loquace politico toscano attaccato ai social come ad un respiratore, nel disperato intento di captare l’umore degli elettori.

da: www.libertaepersona.org

venerdì 1 settembre 2017

La politica secondo Chesterton: un passato che si fa presente

di Luca Fumagalli

Con questo 2017 pare essersi aperta una nuova fase di quel “Chesterton revival” che da qualche anno ha preso piede in Italia. Ormai è passato diverso tempo dalla riscoperta del talentuoso giornalista inglese, un intellettuale cattolico certamente scomodo, ma proprio per questo di grande attualità. Quando si apre un libro di Chesterton – poco importa se uno dei racconti di Padre Brown o un saggio di teologia – si è avvolti dalla piacevole sensazione di leggere un classico intramontabile, un autore che a distanza di decenni dalla scomparsa ha ancora la forza di giudicare con autorevolezza il tempo presente. Il suo pensiero, infatti, si fonda su un elemento di eternità che lo rende impermeabile alle mode passeggere, e comunque sempre in grado di parlare del “qui e ora”.
La forza profetica di Chesterton è dunque quella qualità che ha permesso alla sterminata bibliografia dell’inglese di resistere alle ingiurie del tempo e di riemergere come un piacevole imprevisto al momento più opportuno, dopo anni di giacenza nel dimenticatoio. Troppo incline al paradosso divertito e divertente, forse troppo ottimista per un’Italia che usciva devastata dal secondo conflitto mondiale, Chesterton, come detto, è tornato alla ribalta nel Bel Paese solo di recente, quando si è iniziato a tradurre e a dare alle stampe anche i suoi lavori “minori” (ma non per questo marginali o poco interessanti). Tutto ciò, oltre a portare alla luce un tesoro inestimabile, ha contribuito a restituire allo scrittore il posto che meritava, ricollocandolo tra gli intellettuali più importanti del XX secolo.
Parallelamente si è assistito al fiorire di numerosi studi, un fatto straordinario se si pensa allo scarso interesse di cui generalmente godono in Italia gli scrittori cattolici inglesi (con la sola eccezione di Tolkien). Il lavoro di approfondimento è giunto in questi ultimi mesi a un gradino ulteriore con la pubblicazione delle prime antologie commentate del pensiero chestertoniano.
Un esempio di questa nuova tendenza è l’interessantissimo volume Politica (Nova Europa Edizioni, 2017), appena uscito nelle librerie, in cui sono raccolti alcuni interventi di Chesterton a proposito della “cosa pubblica” e della società. All’introduzione, firmata da Paolo Gulisano, si accompagna in chiusura un breve intervento di Orazio Maria Gnerre dedicato al rapporto tra Chesterton e il comunitarismo.
Dalla lettura del libro, tra l’altro ben rifinito dal punto di vista editoriale, con numerose note e un’appendice finale dei personaggi storici citati a cura di Camilla Scarpa, emerge finalmente in tutta la sua compattezza l’ideale politico di Chesterton. L’inglese, sulla falsariga del fratello Cecil e dell’inseparabile amico Hilaire Belloc, dopo una dura accusa lanciata a quell’oligarchia autoreferenziale che è il sistema partitocratico britannico, spiega le ali per alzarsi in volo e giudicare, in generale, pregi e difetti delle maggiori ideologie allora in voga. Liberalismo e comunismo sono parimenti condannati come mistificazioni della realtà: se il liberalismo crea inevitabilmente il monopolio, schiavizzando le masse, il comunismo è l’individualismo capitalista allargato a una ristretta élite di potere, altrettanto incapace di favorire la vera democrazia e il conseguente benessere del popolo. L’unica soluzione, a questo punto, sarebbe quella di distribuire i mezzi di produzione alle famiglie, ritagliando per lo stato un ruolo di garante dell’ordine e di sostegno dell’economia.
La proposta chestertoniana, il cosiddetto “distributismo”, nonostante mostrasse una grande affinità con l’enciclica Rerum Novarum che Leone XIII aveva dedicato alla questione sociale, purtroppo non godette mai di una larga base di consenso e finì con l’autoescludersi dal dibattito politico.
L’individuo e la comunità in lotta contro la perdita della libertà, lungi dall’essere elucubrazioni di un passato romantico, sono comunque aspetti decisivi anche nella contemporanea società liquida. Sono questioni scottanti che Chesterton consegna come testimonianza provocatoria a tutti quegli uomini di buona volontà che detestano il banale e le soluzioni di comodo. Da questo punto di vista Politica è un manuale per sopravvivere alle insidie del pensiero unico, un pensiero che produce falsi miti, oppressione morale e nuove forme di schiavitù lavorativa, un pensiero che è anti-umano e da cui è più che mai urgente difendersi.

da: www.radiospada.org